Vela, l'ex tecnico Stefano Marchetti: "Molineris e Plazzi sono diventati grandi vicino a me: sapevano ascoltare ed erano bravi e umili come oggi"

Tomaso Palli
Nella storica spedizione di Luna Rossa per la 36a edizione dell’America’s Cup, Umberto Molineris (in barca) e Jacopo Plazzi (a terra) guidavano la nutrita rappresentanza ravennate nel team. Chi conosce molto bene entrambi è Stefano Marchetti, ravennate classe 1968 che, nel ruolo di allenatore, li ha visti crescere sia come velisti ma soprattutto come uomini. Oggi Marchetti, oltre ad essere direttore sportivo presso il Circolo Velico Punta Marina, ricopre il ruolo di direttore tecnico giovanile della Federvela Emilia Romagna.
Marchetti, è soddisfatto del risultato dei suoi Jacopo Plazzi e Umberto Molineris?
«È un grande orgoglio perché vuol dire che il tempo che abbiamo passato assieme è stato speso bene in termini di passione, sacrificio e input. Entrambi sono sempre stati disposti a crescere facendo un passo alla volta per migliorarsi: per questo, anche oggi, non si sentono certamente arrivati e, con un’altra Coppa America, sanno che dovranno riconquistarsi posto e fiducia. L’orgoglio è quello di aver avuto a che fare con due persone molto serie e… di non averle rovinate (ride, ndr) dando loro tutti gli strumenti per crescere nel mondo della vela».
Non li ha rovinati ma qualcosa avrà certa dato?
«E tanto hanno dato loro a me. Ma sarebbe troppo facile dire che questo basti per far iniziare una carriera: i ragazzi devono metterci tanto del loro».
Che rapporto si crea tra allenatore e giovane velista?
«Dipende dalle due persone, ma il clima è di fiducia e alla fine ci si dice più o meno tutto. Il rapporto che si crea è particolare, stretto e che dura nel tempo».
Veniamo ai due: com’erano da ragazzi?
«Ho avuto più a che fare con Jacopo che ho allenato dai 9 fino ai 18 anni passando insieme un bel pezzo di vita. Invece, Umbi è arrivato un poco più tardi e l’ho perso prima perché, più grande in termini di dimensioni, ha cambiato classe. Entrambi erano come sono oggi: ieri ragazzi, oggi uomini poco appariscenti, molto seri e bravi in termini di impegno ma senza mostrarlo».
Nella vela, si capisce il talento già giovani?
«In questo sport, non tutto ma tanto è in divenire. C’è tempo per imparare e puoi non essere un fenomeno da piccolo ma diventarlo da grande. Anzi, noi in Italia abbiamo tanti piccoli fenomeni che poi non si confermano nella crescita».
Jacopo e Umberto erano già fuoriclasse?
«Non erano quelli che da piccoli vincevano tutto. Ciò che hanno fatto se lo sono guadagnato strada facendo. Impegnavano tempo ed energie per allenarsi, avevano la determinazione e la consapevolezza di poter imparare in ogni momento e la modestia di saper ascoltare tutti i consigli».
Vi siete sentiti dopo la Coppa America?
«Jacopo l’ho sentito il giorno dopo ma anche durante le varie regate. Mentre con Umbi ci siamo sempre messaggiati perché lui, essendo in barca, aveva una routine particolare e faceva più fatica in chiamata».
Cosa vi siete detti?
«Niente di più di quanto uscito nelle telefonate o messaggi precedenti».
E allora: che Coppa America ha visto Stefano Marchetti?
«È stato bello il modo con cui si sono risollevati dopo un esordio non brillante, un lavoro eccezionale del team. Ma grazie a Jacopo e Umbi conoscevo bene la forza di New Zealand in tutte le condizioni. C’è stata l’illusione che si potesse andare ad armi pari fino in fondo, ma alla fine è uscita la barca un po’ superiore che ha permesso ai neozelandesi di recuperare i numerosi errori, anche superiori ai nostri. Ma la Coppa America è un qualche cosa di diverso dalla vela che conosciamo tutti».
Ci spieghi.
«È un mondo a parte, un evento storico che catalizza l’attenzione del panorama velico mondiale per quello che fa vedere in termini di sviluppo, idee e novità. Personalmente non ho visto regate così emozionanti. Sono state spettacolari timonieri ed equipaggi con manovre che forse nemmeno loro pensavano di fare a quelle velocità. Stiamo parlando del nuovo concetto della vela ma, secondo me, non è ancora tempo per portare tutto il nostro mondo in quella direzione. Forse è colpa mia che appartengo ad una scuola antica, capisco ci possano essere visioni più moderne».