Ravenna, Saturno Carnoli ricordato da Ivan Simonini (Il Girasole)

Romagna | 27 Marzo 2020 Cronaca
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Ivan Simonini - Lui, Saturno “Nino” Carnoli, aveva 24 anni e aveva già finito gli studi. Io avevo 16 anni e studiavo al Ginnasio di Ravenna. La sera prima, dopo l’ennesima accesa discussione sul mondo in Piazza del Popolo, mi aveva convinto a non tirare troppo tardi perché dovevamo alzarci alle cinque del mattino per andare all’ANIC. Voleva farmi vedere come si organizza uno sciopero operaio: “Sarà la lezione più importante della tua giornata di scuola. Poi alle otto al Classico ti ci porto io”. Alle sei eravamo davanti ai cancelli dello stabilimento chimico, per i ravennati il Gigante. Lì, tra i vari riti sindacali mi colpì particolarmente quello nevralgico della formazione dei picchetti, composti dagli operai più politicizzati e trascinatori, quelli che dopo, lo sciopero, l’avrebbero fatto riuscire perfettamente. Dalle otto alla tredici, quel giorno a scuola, la mia testa non riuscì a liberarsi mai di quella “lezione” extrascolastica.
Seguirono tra me e Nino 50 anni di frequentazioni in cui non saprei dire se siano state più numerose le litigate o le collaborazioni. Né saprei dire se le collaborazioni siano state più importanti delle litigate stesse. Molte volte litigate e collaborazioni convivevano.
Nino era un creativo allo stato puro e nello stesso tempo uno sperimentatore che aveva il bisogno interiore di condividere con chi stimava le sue idee di partenza che spesso modificava dopo il confronto. Non è un caso che i libri più importanti che gli ho pubblicato come editore del Girasole siano stati scritti da lui a quattro o a sei mani, con altri studiosi di pari livello, coi quali l’esperienza scritturale rinsaldava sempre l’amicizia, da “Nero Ravenna. La vera storia dell’attentato a Muty” (con Paolo Cavassini, 2002) a “L’ala di Berardi. Storia di un grattacielo mai costruito a Lido Adriano” (con Cesare Albertano e Domenico Mollura, 2017).
Pochi a Ravenna conoscevano come lui il mosaico antico e contemporaneo e pochi possedevano come lui l’arte della comunicazione e il dono di vedere e proporre la realizzazione grafica a un tempo più bella ed efficace. Nino era una miniera vivente di suggerimenti e progetti di pubblica utilità, di provocazioni culturali spaesanti, come quando propose al Sindaco di portare nel bel centro di Piazza Kennedy il Grande Ferro di Alberto Burri che è al Pala De André, un modo geniale di richiamare l’attenzione della città su una scultura alla città pressoché sconosciuta, nonostante sia il suo più prestigioso monumento di arte moderna.
Ricordo ancora nitidamente, quando a metà anni ’80 mi portò nel Salone dei Mosaici che allora era la Sala delle Feste del Club Iride. Praticamente una balera. In quell’orario la sala era vuota e il guardiano, d’accordo con Nino, finse di allontanarsi. Sollevando leggermente e con grande cautela la copertura sul mosaico della Guerra di Spagna, lo spettacolo mirabile della natura morta cubista in basso a destra ci convinse della qualità del prodotto, ci convinse che quell’arte non fosse solo propaganda di regime e che il piccolo reato che stavamo commettendo era ampiamente giustificato dal vivo desiderio di restituirla alla luce. Fu lui il primo a proporre che il ciclo musivo parietale della Casa del Mutilato (ciclo realizzato nel 1940, ancora in età fascista, dai migliori giovani mosaicisti ravennati del tempo) fosse riscoperto e finalmente valorizzato dopo essere stato nascosto per mezzo secolo.
Negli ultimi anni ci capitava spesso di parlare (oltre che di libri e dei guai della politica culturale del Comune) anche della patologia vescicale di cui soffrivamo entrambi. Subito prima di essere ricoverato a Faenza il 9 marzo 2020 per un intervento chirurgico di ordinaria amministrazione mi aveva fatto avere la splendida copertina (che qui allego e rendo nota in anteprima) di un volumetto di prossima pubblicazione “Andavamo al caffè”, tratto da una sua recente conversazione (che aveva incantato il pubblico della Casa Matha) e dedicato ad alcuni storici bar ravennati che negli anni ’60 erano divenuti veri e propri “centri di vita formativa” proprio nel periodo decisivo della sua formazione intellettuale e politica: dal Bar Mosaico al Grand’Italia, dal Bar Zenith al Bar Belli al Bar Byron. L’intervento urologico sembrava andato bene, ma il 19 marzo la cosa si complica: febbre alta, primo tampone negativo il 19, secondo tampone positivo il 23, trasferimento alle malattie infettive di Lugo perché all’ospedale di Faenza il reparto covid non c’è e così il nostro Nino è andato a morire in solitudine (lui che la solitudine la odiava) sotto il Pavaglione dopo aver contratto il virus nella capitale della ceramica.
L’ho appreso intorno alle diciannove di ieri, quasi in tempo reale, da Piero Casavecchia, avvertito da Paolo Cavassini che Nino lo aveva sentito spesso in questi giorni drammatici e che mi ha raccontato, con la malcelata commozione dell’amico autentico, come proprio Nino in quei momenti riflettesse con lui sulla tremenda novità che questa pandemia impone ai morti, ai quali - “insalutati defunti”- toglie persino il diritto e l’onore del funerale.
Questa notte non sono riuscito a prendere sonno.
                                                                          
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Sconvolgente, la sua morte. Gli volevo bene, da quando entrambi eravamo del Manifesto eci vedevamo in sede in Via Fiume Abbandonato. Un compagno eccezionale. Grazie, a Nino.
Commenta news 31/03/2020 - Massimo Buda
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