Lugo, la presidente di "Bambini dal mondo": "Famiglie in calo per l'accoglienza"
Silvia Manzani
«Quando Aliaksei, dopo la prima estate a casa mia, è tornato in Bielorussia, per un po’ di tempo ho continuato a guardarmi intorno, con la sensazione di averlo perso. Era stata un’esperienza bellissima, ma allo stesso tempo faticosa: lui era affettuosissimo ma del tutto senza regole». Elena Zannoni oggi è la presidente dell’associazione lughese «Bambini dal mondo», nata sulla scia di quello che, dal 1992 in poi, era stato il «Comitato lughese bambini da Chernobyl». A 35 anni dal disastro nucleare, oggi la sensibilità rispetto al tema è nettamente scemata, senza contare che la pandemia impedirà quest’anno, per la seconda estate consecutiva, di organizzare i soggiorni dei bambini nelle famiglie della Bassa Romagna: «Io, personalmente, mi sono avvicinata alla questione quando avevo 27 anni e facevo l’assessore in Comune a Lugo. A una delle iniziative organizzate dal Comitato un bambino bielorusso mi saltò in braccio. Venni a sapere che la famiglia che lo stava ospitando, l’estate dopo non avrebbe ripetuto l’esperienza. E così mi feci avanti per accogliere». Quel bimbo era Aliaksei, molto diverso da Ivan, che sarebbe arrivato più avanti, e da Viktor, a cui Elena si affeziona durante uno dei viaggi in Bielorussia: «Anche il mio compagno, una volta entrato nella mia vita, ha poi sposato la causa, tanto che Ivan e Viktor sono stati da noi insieme l’anno in cui aspettavo il mio primo figlio. C’è stata poi un’estate, più avanti, in cui a casa eravamo in sei: io, il mio compagno, i nostri due figli piccoli, la nostra figlia grande in affido e i due bimbi bielorussi, in composizione variabile. Di spesa ne serviva parecchia, lo ricordo bene. E in macchina, tutti insieme, non ci stavamo». Nelle annate migliori, l’associazione è riuscita a coinvolgere fino a 35 famiglie, per poi registrare un lento calo delle adesioni: «Le motivazioni sono diverse: le conseguenze del disastro di Chernobyl sono meno percepite, nell’immaginario collettivo, come una necessità di cui doversi occupare, senza contare che le famiglie che davano la loro disponibilità in passato sono invecchiate, qualcuno è diventato nonno e deve occuparsi dei nipoti. Noi abbiamo fatto di tutto per tenere viva e solida la rete delle famiglie, anche perché altre associazioni dei dintorni hanno chiuso. Ci siamo spesi in direzione dell’affido, che sappiamo bene essere un’altra esperienza, abbiamo creato un gruppo di auto mutuo aiuto dedicato e realizzato un libro. Speriamo, ovviamente, che dopo la fine della pandemia si possano un po’ recuperare il tempo perso e le famiglie rimaste ferme». Il Covid, oltre a rendere difficoltosi i soggiorni dei bambini in Italia, ha impedito anche di organizzare cene e iniziative di finanziamento e raccolta fondi: «Io alla questione Chernobyl continuo ovviamente a essere molto sensibile. Mi ricordo bene, da bambina, le immagini in tv, i moniti a non mangiare questo o quel cibo, così come a non bere il latte: «Nel 1986 avevo 12 anni e non si parlava d’altro. Col tempo, venne fuori il tema dei tumori alla tiroide, che erano molto aumentati, senza contare che quando andavamo in Bielorussia, la situazione di degrado, povertà e disagio era impressionante: sembrava il nostro secondo dopoguerra». Per quel che riguarda la salute dei «suoi» bambini, la situazione era variegata: «Aliaksei stava abbastanza bene ma cresceva molto lentamente, Ivan aveva problemi gastrointestinali, non sappiamo bene se legati al disastro, Viktor era gracile. Quando ospitavamo i bambini, le ecografie alla tiroide erano la prassi, spesso venivano riscontrati noduli, per fortuna nella maggior parte dei casi benigni. Li portavamo anche dal dentista, perché avevano quasi sempre diverse carie da curare». Con il passare del tempo, Elena e la sua famiglia non hanno perso i contatti con i bambini ospitati, che oggi hanno circa vent’anni: «Non c’è un rapporto quotidiano ma ogni tanto ci sentiamo. Credo che per loro, come per tutti gli altri, essere stati accolti nelle nostre famiglie abbia avuto un significato diverso a seconda dei contesti di partenza: i bambini che provengono da famiglie “normali” vivono il soggiorno da noi come una vacanza, mentre quelli in tutela, affidati a qualche figura adulta nel Paese d’origine, hanno modo di vedere che famiglia non fa rima sempre con disgregazione e che c’è comunque modo di vedere un futuro. Poi c’è chi proviene dagli istituti: si tratta di orfani o di bambini con familiari non in grado di occuparsene. Con loro abbiamo sempre avuto timore di creare false aspettative, in fin dei conti l’accoglienza di cui ci occupiamo non è una pre-adozione. Per questo, a malincuore, col tempo abbiamo smesso di ospitarli».