IL CASTORO | Sanità, la ricetta del dott. Gabriele Farina, per risollevare il sistema sanitario nazionale
Irene Roncasaglia
Uno stato non gode di buona salute quando ad ammalarsi cronicamente è il comparto della Sanità. Affonda le radici nell’articolo 32 della Costituzione il diritto alla salute, ma è da 45 anni che il sistema sanitario nazionale è stato istituito, con la legge 883 del 23 dicembre 1978. Con l’ultimo decreto di riordino del 1999 (riforma Bindi), si è rafforzato il potere delle Regioni ed è stata introdotta l’aziendalizzazione: le unità sanitarie locali (Usl) sono così diventate aziende sanitarie con autonomia organizzativa (Asl). La politica è molto vicina alla sanità, dato che sceglie i direttori generali delle Asl e il suo management. Con questa intervista a Gabriele Farina, 44 anni, primario del Pronto soccorso e della medicina d’urgenza all’ospedale degli Infermi di Faenza, abbiamo cercato di conoscere meglio lo stato di salute attuale del Ssn.
Che rapporto c’è tra sanità, economia e politica?
«Non esiste un sistema sanitario totalmente performante, perché avrebbe un costo troppo elevato. Il bilancio regionale è principalmente dedicato alla sanità, che viene vista come un peso, anche se è il fulcro della società. La politica dovrebbe considerare la medicina un valore e non solo una spesa, scegliendo in un’ottica di salute e non di risparmio. Le scelte degli amministratori sono però spesso orientate da visioni a corto raggio e la sanità finisce per diventare una vittima sacrificale. Purtroppo i tagli sul Ssn hanno un’evidente ricaduta sulla qualità del servizio, come si è visto in seguito all’insediamento del governo Monti, che ha abolito buona parte dei posti letto. Attualmente si verifica il fenomeno del boarding, per cui i pazienti stazionano in barella all’interno del pronto soccorso, in attesa del ricovero».
Quanto incidono le scelte della politica sulle difficoltà del sistema sanitario?
«A mio avviso molto: la Sanità spesso viene messa in secondo piano. Nell’ultima legge di Bilancio il Governo ha scelto di stanziare 600 milioni per la Sanità e di rateizzare in cinque anni i debiti dei club di calcio con il fisco, rinunciando dunque, nell’immediato, a entrate per più di 800 milioni: un’incoerenza!».
I principi fondamentali su cui si basa il Ssn sono l’universalità, l’uguaglianza e l’equità. Sono ancora garantiti?
«L’universalità e l’equità sì, perché il servizio è gratuito e garantisce assistenza a tutti i cittadini italiani, mentre l’uguaglianza non è completamente garantita, dato che ogni Regione è libera di utilizzare i fondi a modo suo. Spesso si verifica il ‘turismo della salute’: molti pazienti del meridione si fanno curare al nord, mettendo le regioni ancora più in difficoltà, perché devono pagare il servizio alle cliniche accreditate».
Quali sono le aree più deboli del paese?
«Sicuramente le zone del sud risentono della diversa qualità sanitaria e la riforma del Titolo V della Costituzione, del 18 ottobre 2001, ha aumentato le disparità. Con il conferimento dell’autonomia nella gestione dei patrimoni alle singole regioni, si è accentuato il divario in quelle realtà che presentavano difficoltà politiche e organizzative storiche».
Nonostante queste disparità, considera il Ssn ancora efficiente?
«Sì, in Italia lo è ancora, in altri paesi meno. Qui la differenza la fanno coloro che ci lavorano, sopperendo alle mancanze organizzative; ciò è possibile solo grazie all’interazione e alla cooperazione tra medici».
..che hanno funzionato durante la pandemia?
«Sì, il Covid è stato affrontato grazie alla capacità organizzativa degli impiegati nel Pubblico. In alcune realtà è stato un periodo pesante, ma nel complesso il sistema ha risposto molto bene, considerati gli strumenti che aveva. La Lombardia ha mostrato i limiti di un modello pubblico-privato integrato (opposto a quello emiliano-romagnolo), che nella fase emergenziale è crollato, perché il privato non si è mai occupato di emergenze da risolvere nell’immediato. L’Emilia-Romagna ha avuto più tempo, settimane di preparazione. A Faenza in particolare ci sono 8 letti intensivi e 4 sub intensivi inaugurati nel 2019, che hanno fatto la differenza».
La medicina d’urgenza ha punti deboli o sono gli utenti che abusano dei pronto soccorso?
«Pensandoci bene credo che la medicina d’urgenza non abbia punti deboli, è affascinante perché sa gestire tutte le emergenze delle singole discipline, opera nei 20 minuti più importanti, che fanno la differenza sulla vita del paziente. Il Pronto Soccorso sta mantenendo saldo il legame tra popolazione e sanità, al posto della medicina territoriale. Chi vi si presenta impropriamente contribuisce a creare l’attesa: circa il 70% dei pazienti ha un codice bianco o verde e, se attende, viene preso in cura, evitando così di prenotare le visite tramite il medico di famiglia, procedura che richiede tempistiche più lunghe».
Dunque qual è il problema che riscontra maggiormente nella medicina d’urgenza?
«Senza dubbio la mancanza di personale. Negli anni ‘80 il pronto soccorso era un luogo di passaggio, ora di diagnosi e cura. Al vertice però pare che non se ne siano resi conto: in Italia la medicina d’urgenza non ha lo stesso prestigio delle altre specializzazioni, è poco attrattiva per i laureandi. Dal 2015 le dimissioni di massa nel pubblico sono un grande punto debole, in particolare per i medici di famiglia e il Pronto Soccorso. Il problema è legato alla gestione della vita privata, perché i turni sono stressanti. Ricoprendo un ruolo di responsabilità, spesso in contesti disorganizzati, si porta inevitabilmente una parte ‘grigia’ a casa, un malessere che peggiora la qualità della vita personale. La frustrazione pone un limite alla sopportabilità e così si finisce per cercare un’alternativa nel privato».
Cosa distingue il sistema pubblico da quello privato?
«I due sistemi non sono confrontabili, dato che la sanità privata opera con un numero di pazienti inferiore ed elitario. Inoltre è diversa l’intenzione con cui vi lavorarono i medici: nel privato c’è anche l’obiettivo del guadagno, ottenibile trasformando la prestazione sanitaria in una merce. Gli ospedali pubblici si differenziano anche dagli ospedali privati accreditati, che svolgono solo una prestazione accordata. Secondo me il sistema statunitense, che è privato e ha accessibilità limitata, ha poco valore, perché la salute del singolo dipende dal suo reddito e dalla fortuna sociale. La salute, invece, come la scuola, non può essere oggetto di mercato, non è un prodotto che posso permettermi o meno, ma è un diritto e lo si deve garantire».
Come si potrebbero evitare le disuguaglianze dovute a una diversa disponibilità economica?
«Le assicurazioni contribuiscono a livellare parzialmente le disuguaglianze, però non sono completamente risolutive. Il Ssn potrebbe funzionare meglio se tutti pagassero le tasse. Sarebbe necessaria una campagna, a lungo termine, contro l’evasione fiscale, ma per porla in essere ci vuole una nuova dirigenza politica, che attui scelte coraggiose per il benessere del paese, pensando concretamente. La società statunitense, che fa dell’individualismo la sua forza, quando si parla di comunità è molto più unita, ha un senso della collettività che noi abbiamo perso e dovremmo ritrovare».
Qual è il futuro della sanità pubblica?
«Dato lo stato di affanno in cui versa da molti anni, sono preoccupato per la sua tenuta. Temo che avremo un sistema sanitario povero per i poveri, mentre ci sarà una crescita delle prestazioni private. Ognuno deve fare la propria parte e la politica ha il compito maggiore. Sicuramente il Ssn funzionerebbe bene se lo utilizzassimo nella corretta misura, partendo dal medico di base, ma la medicina del territorio e l’ospedale non si parlano in tempo reale. Ora la sanità è come un percorso a due strade, in cui ne viene usata una sola, che si ingolfa. La medicina territoriale andrebbe perciò potenziata e il medico di famiglia potrebbe così fungere da filtro. Servirebbe inoltre un’educazione all’uso della risorsa: l’emergenza deve essere riservata a chi ha la necessità di essere curato subito».