IL CASTORO | «La palude dei fuochi erranti» di Eraldo Baldini ci guida tra storia e superstizione

Romagna | 04 Aprile 2021 Blog Settesere
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Fabrizio Longanesi

Anno 1630. L’Italia settentrionale è devastata da una terribile pestilenza: in una Romagna nebbiosa e lugubre l’epidemia si sta velocemente propagando. Viene attuato, dunque, un piano d’emergenza e Monsignor Diotallevi è incaricato, con la nomina di «commissario apostolico», di contenere il malanno. La paura e la disperazione si diffondono tra il popolo, accentuate anche da misteriosi fatti, che accadono sempre più spesso nella zona, attribuiti al demonio. Le tematiche affrontate nel romanzo sono l’eterna lotta tra scienza e fede, il pregiudizio e la stregoneria. Eraldo Baldini ci racconta qualcosa di più sul suo ultimo libro, uscito nel 2019.

Perché ha scelto di scrivere questo libro?

«Avevo, insieme alla collega Aurora Bedeschi, scritto l’anno prima un saggio intitolato Il fango, la fame, la peste. Clima, carestie ed epidemie in Romagna nel Medioevo e in Età moderna, una ricerca che mi aveva affascinato e coinvolto molto. Soprattutto i documenti che avevo letto e usato per trattare della grande epidemia di peste del 1630 mi avevano colpito ed emozionato. Così, come spesso mi succede, è stata una ricerca storica a suggerirmi l’idea e le suggestioni necessarie per scrivere un testo narrativo».

Per quale motivo ha deciso di ambientarlo proprio nella nostra zona?

«Lo faccio praticamente per ogni mio romanzo o racconto, tranne rare eccezioni. Ambientare storie nel paesaggio, fisico, umano e culturale, che conosco, non solo mi facilita le cose, ma mi consente di essere più ‘onesto’ con i lettori, perché è sempre bene, almeno nell’ambientazione, essere credibili e realistici. Anche se il romanzo narra una vicenda seicentesca, certi aspetti del paesaggio romagnolo, come le paludi, le pinete e le vaste campagne restano riconoscibili e mi sono familiari, sia per esperienza e frequentazione diretta, sia perché, per mio interesse personale, ho sempre cercato di sapere com’erano e come sono mutati nel tempo».

Come si prepara per scrivere un libro così dettagliato dal punto di vista storico?

«Per formazione di studi e per la mia attività di saggista, sono uno storico e un antropologo culturale. Ho scritto decine di libri sulla cultura popolare e la storia della nostra terra, quindi partivo già con un buon bagaglio di informazioni e di conoscenze. Però, come sempre succede, per ogni romanzo, soprattutto se è un romanzo storico, occorre una lunga fase di documentazione specifica. Insomma, quando si comincia a narrare bisogna essere abbastanza padroni della materia, avere a disposizione tutti gli elementi documentari possibili. Ho cercato quindi di approfondire ogni aspetto relativo all’impatto della peste del 1630 sui nostri territori e sulle comunità dell’epoca».

Quanto tempo ha impiegato per terminare il libro?

«A differenza di diversi colleghi, che fanno un altro lavoro e dedicano alla scrittura solo il tempo che possono, io scrivo come professione esclusiva, quindi riesco ad impegnarmi nella stesura con continuità e senza limiti di orario. Inoltre, una volta acquisite le informazioni che mi servono e ideata una trama, sono piuttosto veloce. Questo romanzo l’ho scritto in un paio di mesi».

Come è giunto a certe scelte linguistiche ed espressive, che stupiscono per precisione ed incisività? 

«Quando si scrive un romanzo storico, non si può armonizzare il linguaggio a quello dell’epoca di cui si narra (il testo risulterebbe difficilmente leggibile), però ci si può sintonizzare in qualche modo con certe forme di sensibilità e di espressività».

Da dove è nata la sua passione per la scrittura?

«Credo dalla passione per la lettura. Ho avuto la fortuna di nascere in una famiglia che, per quanto umile, possedeva una piccola biblioteca: mia madre era una divoratrice di romanzi. Così ho potuto apprezzare fin da piccolo la bellezza delle storie e il fascino di uno stile ben esercitato».

Quale messaggio vuole veicolare con questo libro?

«In campo narrativo, non necessariamente un libro contiene un messaggio: a volte si scrive una storia solo perché la si ritiene coinvolgente e suggestiva. In questo romanzo, però, direi che un messaggio c’è, e riguarda l’eterna lotta dell’uomo con le difficoltà di un mondo e di una natura che, al di là di ogni progresso e sforzo, possono rimanere ostili se egli stesso avrà come obiettivo non quello di armonizzarsi all’ambiente che lo circonda, ma di dominarlo e di sfruttarlo. Dal punto di vista dello storico, poi, mi interessava raccontare un’epoca, il Seicento, in cui la scienza ancora si mescolava in certi casi con la superstizione e la realtà con forme dell’immaginario».

Rivede certi comportamenti di pregiudizio o superstizione nella società moderna, anche in relazione all'attuale pandemia?

«Sì, non mancano, e assumono la forma di notizie imprecise, fuorvianti, non verificate, (le cosiddette fake news), improntate a forme di pensiero e di cultura che sfiorano l’irrazionale. Inoltre, come accade nel mio romanzo, anche elementi di egoismo e di tornaconto materiale condizionano le risposte alla pandemia attuale e appare complicato scegliere fra gli interessi parziali e quello generale della comunità».

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