IL CASTORO | Hereford, un campo di prigionia non convenzionale

Romagna | 07 Aprile 2022 Blog Settesere
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Fabrizio Longanesi
Il caldo sole del Texas splendeva anche su Hereford, oggi una cittadina di 60 mila abitanti, dove tra il 1942 e il 1946, in un campo di prigionia, per molti aspetti diverso da quelli del nazionalsocialismo tedesco a cui il nostro immaginario è legato, venivano concentrati circa 5 mila soldati italiani. I detenuti di Hereford erano un decimo dei 50 mila militari italiani prigionieri di guerra negli Usa, che, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, si rifiutarono di aderire al Regno del Sud.
I campi di prigionia statunitensi si trovavano in tutti gli stati della confederazione, a eccezione del Vermont e del Nevada. In California erano 78, nel Texas 73, nello stato di New York 43. Alcuni arrivarono a ospitare fino a 10 mila prigionieri, ma la media si aggirava attorno alle 500 unità.
Per i deportati disposti a cooperare, gli statunitensi decisero di istituire le Italian service units, nelle quali avrebbero lavorato, godendo di una certa libertà. Accettarono di farne parte circa 33 mila italiani, che lasciarono l’America non molto tempo dopo, mentre i non cooperatori, che subirono condizioni di vita sempre peggiori, furono concentrati soprattutto nei campi di Hereford e in altri negli stati del Wyoming, dell’Arizona e delle Hawaii. Dovettero aspettare i primi mesi del 1946 per essere imbarcati a Los Angeles e tornare finalmente in Italia. Ospite del campo texano fu anche un giovane medico di Città di Castello, Alberto Burri, catturato dagli inglesi in Africa l’8 maggio 1943. Proprio durante la prigionia a Hereford maturò la decisione di dedicarsi all’arte. Tra gli altri, meritano di essere ricordati anche gli scrittori Giuseppe Berto e Gaetano Tumiati. Quest’ultimo, scomparso 10 anni fa, pubblicò nel 1985 il suo diario Prigionieri nel Texas per i tipi di Mursia. Gli irriducibili di Hereford patirono soprattutto privazioni alimentari e «i pochi decessi dei soldati italiani sono da imputare a cause precedenti la cattura e a incidenti vari», secondo i dati raccolti da Daniele Marconcini, per conto dell’Irer, Istituto di ricerca della regione Lombardia.
Per sapere di più sul campo di Hereford, abbiamo intervistato il dottor Giuseppe Masetti, direttore dell’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Alfonsine.
In che cosa differiva Hereford dai tanti campi che hanno costruito, negli anni della guerra, i tedeschi e gli inglesi?
«Mettendo a confronto le testimonianze dei prigionieri fin qui pubblicate direi che le differenze sono notevoli. Nei campi di prigionia inglesi in Africa si soffriva la fame, la sete, i contagi e la dura disciplina riservata agli ex nemici. Senza parlare poi di quelli inviati in India sulle navi inglesi, nella speranza che fossero affondate dai tedeschi, così da risolvere il problema dei troppi prigionieri italiani. Ancora più dura la sorte dei nostri soldati detenuti nei campi tedeschi, fossero essi Stalag, dove venivano imprigionati gli ufficiali, od Oflag, destinati ai sottufficiali e ai soldati, che, quando ne uscivano vivi, continuavano a sognare per anni un tozzo di pane o una coperta».
Il campo di Hereford rappresenta, in qualche modo, una memoria scomoda nella nostra terra, in cui la lotta partigiana a fianco degli alleati è stata particolarmente sentita e celebrata, anche negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale?
«Non credo ci siano imbarazzi a parlare di Hereford in Italia. Semplicemente ritengo sia rimasto ai margini della memoria pubblica, perché non così severo come quelli francesi, inglesi o tedeschi e quindi luogo di minori sofferenze, da cui discende minore drammaticità».
 Perché, in generale, si parla così poco degli internati italiani negli States?
«I nostri soldati fatti prigionieri e mandati negli Usa sono stati decisamente più fortunati. Il ferrarese Gaetano Tumiati, che vi rimase qualche anno come non collaborativo, nonostante avesse un fratello partigiano Medaglia d’Oro al valore al merito, caduto a Cantiano nel 1944, racconta nel suo libro che inizialmente usavano la farina bianca per tracciare le righe del campo da calcio, poi alla fine dovette mangiarsi anche un serpente, per la fame. Così come Biffi, il vecchio presidente dei Combattenti di Bagnacavallo, che fu inviato alla Hawaii a togliere chiodi dai pallets, non si è mai lamentato della sua originale sorte».
Si può pensare di organizzare mostre o celebrazioni anche per quanto riguarda questo genere di campi di concentramento?
«Temo che l’argomento sia occupato stabilmente da realtà più tragiche e che vi sarebbe poca attenzione a curare una mostra su di un caso così atipico e un po’ ʻfuori registroʼ».


 
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