«In tutti questi anni mi sono divertito un mondo, ho imparato, ho conosciuto e ho soprattutto cercato di portare in giro per l’Italia e non solo la mia interpretazione del gusto della Romagna in tavola. Sono sempre stato fedele a questa impostazione e credo di aver aiutato, nel mio piccolo, a far conoscere lo straordinario patrimonio di sapori che ha questa terra». Così Silverio Cineri, prima ed unica stella Michelin ottenuta a Faenza, commenta il suo addio alla cucina attiva. Dopo oltre mezzo secolo di attività uno dei personaggi più istrionici, eclettici e ruspanti della cucina italiana ha, infatti, deciso di appendere il cappello al chiodo.
Quella presa è stata una decisione sofferta o è un’inevitabile decisione?
«Purtroppo certe scelte come questa sono sofferte. Ma per ragioni di salute non potevo più continuare a cucinare con i ritmi che un ristorante impone. Questo però non significa che abbandonerò, qualcosa potrebbe bollire ancora in pentola».
Della serie?
«Mi piacerebbe, dopo un’esperienza maturata per oltre cinquant’anni, magari poter aiutare le nuove generazioni di chef a prendere coscienza che la cucina non è talent show ma è dedizione, amore, passione e cultura. Per questo mi piacerebbe poter insegnare la storicità dei prodotti e dei piatti magari in un istituto alberghiero».
La sua biografia è legata in maniera indissolubile alla cucina. Tanti successi e tante soddisfazioni. Qualche rammarico?
«Nessuno. Ho sempre cercato di fare il mio lavoro nel migliore dei modi. Ho girato per l’Italia e l’Europa dai 16 anni in poi. Ho attraversato mode, tendenze, rivoluzioni in cucina ma ho sempre cercato di rimanere fedele ai miei capisaldi: territorialità, fantasia, semplicità. Binari sui quali non sempre la cucina di oggi cammina e per questo, mi piacerebbe che le nuove generazioni ritornassero a scoprire la cucina di territorio».
La cucina territoriale, nel caso specifico quella Romagnola, come sta per Cineri?
«Non benissimo. Oggi anche nel mangiare la contaminazione globalizzante impera. Questo, si badi bene, non vuole essere semplicistico localismo. Anzi. Quello che purtroppo noto tra molti miei colleghi è che non sempre la valorizzazione del patrimonio agroalimentare s’è valorizzato. La cucina italiana è uno scrigno di infinite possibilità, sfruttarle per farle conoscere e apprezzare credo debba essere un imperativo
di ogni chef».
Cineri è stato tra i primi in Romagna a ottenere la stella Michelin e l’unico a Faenza. Quanto hanno influito questi riconoscimenti nella sua cucina?
«E’ chiaro che questi riconoscimenti, ottenuti prima alla Frasca e poi con Amici miei, sono stati importanti ma credo che siano arrivati proprio perché non ho mai smesso di presentare piatti con un’anima identitaria. Sono romagnolo, amo la Romagna e ho sempre voluto farla presente nei miei ristoranti, che fossi a Bologna o in India, a Milano o Salerno, Silverio Cineri è sempre stato uno chef romagnolo che ha cercato di presentare piatti, fantasiosi anche, ma sempre dall’anima romagnola e i clienti lo hanno apprezzato».
Il suo rapporto con il vino?
« Io sono astemio. Questo però non mi ha certo impedito di offrire ai miei clienti una selezione, vintage e non, di vini che hanno fatto e fanno la storia dell’enologia italiana. Ho sempre guardato, per rimanere fedele ai miei principi ispiratori, alla Romagna e devo dire che oggi sia l’Albana che il Sangiovese non hanno nulla da invidiare a certi must enologici che non dovrebbero mancare in una carte dei vini»