Da Faenza a Bruxelles, la storia di Sabrina Bellosi, consulente di Federica Mogherini

Romagna | 10 Novembre 2019 Cronaca
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Valentina Brini - Una vita intera in cinque anni. L’Europa che cambia e incontra il mondo, le andate e i ritorni, il privilegio di esserci e raccontare. «La vita è quello che succede, la mia vita professionale mi ha permesso di vedere e di fare delle cose che a 18 anni non avrei mai immaginato». Nata a Faenza ma cresciuta a Castel Bolognese, Sabrina Bellosi oggi vive a Bruxelles ed è consulente dell’Alto rappresentante dell’Unione europea, Federica Mogherini, e vice capo della comunicazione strategica del Servizio di azione esterna dell’Ue, il «ministero degli Esteri» europeo. All’inizio degli anni Novanta, si divideva tra gli studi universitari di Lettere a Bologna e le prime edizioni locali del Messaggero a Ravenna. Nel mezzo, la scuola di giornalismo, sempre a Bologna, una collaborazione con l’Unità, l’ufficio stampa del vicepremier Walter Veltroni durante il primo governo Prodi, lo sbarco all’Agi - dove nel corso degli anni si è guadagnata il ruolo di capo servizio della redazione politica - e poi di nuovo la comunicazione istituzionale, accanto a Mogherini alla Farnesina. L’Europa, vista da Castel Bolognese, sembrava lontana. Da Bruxelles ora la visuale è cambiata. Come se usasse un grandangolare, che rimpicciolisce l’immagine sulla cartina ma allarga l’orizzonte, e al tempo stesso un teleobiettivo, che ingigantisce i minimi dettagli di luoghi prima mai pensati. «In questi anni ho viaggiato tantissimo, incontrato moltissime persone, mi sono seduta al tavolo delle riunioni con i capi di Stato e di governo e i ministri di quasi tutto il mondo. È stata una cosa che difficilmente un altro lavoro mi avrebbe permesso di fare».
Come ci è arrivata a vedere tutto questo?
«Devo ammettere, ed è giusto dirlo, che ho avuto fortuna. Ho sempre lavorato molto e con grande passione, e forse è per questo che alla fine le cose sono successe. Le persone che ho incontrato mi hanno sostenuta, ma mi sono sempre arrivate le telefonate, ed è anche una questione di fortuna».
Non aveva sognato una vita come giornalista di guerra?
«Come sogno magari sì, mi sarebbe piaciuto fare la corrispondente di guerra, tutti i giovani aspiranti cronisti sono mossi dalla voglia di conoscere e raccontare. Fare la giornalista in un altro modo magari mi avrebbe permesso di fare una vita diversa, di fare un lavoro più approfondito, ma questa vita mi ha permesso di vedere molto altro. Per cui è andata bene così, sono contenta».
Le emozioni più forti a Bruxelles?
«Certe volte dico che in questi cinque anni ho vissuto la vita che un’altra persona vive in 50 anni. Dal punto di vista professionale, il ricordo più emozionante è legato ai negoziati sul nucleare iraniano, per come abbiamo gestito la comunicazione e perché sono state trattative lunghe e complicate, dove ho avuto il privilegio di stare nelle stanze in cui si facevano le riunioni. Umanamente, la visita al campo profughi di Cox’s Bazar, in Bangladesh, con i rifugiati Rohingya, mi ha toccato profondamente. Ma anche le visite ai campi di Gaza, in Libano e in Giordania sono tra i miei ricordi più importanti».
Invece, qualche rammarico?
«La cosa che più mi ha fatto sorridere, e anche solleticato, è che in questi anni non ho potuto scrivere molte cose che invece avrei voluto raccontare. Mi sono trovata ad alcune riunioni in cui il mio processo mentale era sempre quello della giornalista e mi mangiavo le mani pensando: “Non posso scrivere”».
Potrebbe raccogliere tutto in un libro.
«Chissà, magari quando sarà passato del tempo…»
Che Europa lascia?
«Il mondo è cambiato completamente in questi cinque anni, ma penso che l’Ue sia diversa da come viene raccontata. Ricordo che le mie prime visite in alcuni Paesi erano molto faticose perché l’Unione era poco conosciuta, mentre ora quasi ovunque andiamo è cambiata la percezione. Si tratta di un lavoro diplomatico poco visibile, ma che ha portato dei frutti nel lungo periodo. Ci sono dossier sui quali l’Ue oggi conta molto, mentre in altri campi, come quello militare, ovviamente l’importanza è minore. In Siria, ad esempio, fa notizia solo l’attacco, ma noi abbiamo organizzato tre conferenze che hanno permesso ai rifugiati di sopravvivere, ed è un lavoro misconosciuto».
Anche a causa della stampa italiana?
«Quello che ho visto in questi anni è un elemento di frustrazione ma anche una presa di coscienza: per la stampa italiana l’Ue è quella cosa che sta a Bruxelles e ci boccia i conti pubblici, oppure quella che accusiamo quando non otteniamo solidarietà sull’immigrazione. In questi anni, la narrazione ha seguito quasi sempre questi due filoni, non c’è mai stato un racconto positivo e propositivo. La semplificazione del dibattito politico e quella del dibattito mediatico vanno di pari passo: non so dire dove cominci l’una e dove finisca l’altra, chi sia la causa e chi l’effetto, ma in Italia oggi è così. Mentre un lavoro di approfondimento implica tempo, forze, capacità, e anche coraggio. Magari ai lettori interesserebbe vedere anche un’altra faccia dell’Ue, ma sta ai mezzi di informazione raccontarla. Credo che questo gioco di distruzione dell’Europa abbia avuto il vantaggio di tirarsi fuori dalle responsabilità».
Bruxelles poteva fare di più?
«Anche dalla nostra parte c’è stata poca capacità di trasmettere un racconto positivo dell’Unione, come se si avesse paura di difendere l’idea di Europa nel profondo. Credo invece che bisognerebbe spiegarne i reali benefici, per costruire un’idea di appartenenza più forte, senza scadere nella retorica. Abbiamo lasciato che si accreditasse il racconto nazionale che uno Stato sovrano è più forte da solo e difende meglio i suoi cittadini, quando è evidente che non è così. Davanti alla competizione con gli Stati Uniti o la Cina, la forza d’urto in 60 o 600 milioni è diversa. Ma queste cose non siamo riusciti a farle capire come avremmo dovuto».
Cambierà qualcosa?
«Spero che i giovani facciano da freno a quest’onda e capiscano i benefici dell’appartenenza all’Ue».
La nuova Commissione dovrà comunicare meglio?
«Lo spero. Fare comunicazione significa rendere le persone coscienti, consapevoli e partecipi di un progetto. È necessario far vedere il lato positivo e non accettare che passi soltanto il lato negativo».
E il suo futuro?
«Rimarrò con il prossimo Alto rappresentante (lo spagnolo Josep Borrell, ndr) per un periodo di transizione, per assicurare continuità nel lavoro. Ho ancora un anno di aspettativa e poi ci sono i miei due figli che vogliono restare, quindi vediamo… Di certo, quando nasci giornalista sei giornalista per sempre».
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