Coronavirus, lo scrittore Cristiano Cavina: "Siamo tutti nello stesso mare, ma c'è chi ha lo yacht e chi la zattera"
Federico Savini - «Questo virus ha un respiro storico. Ti fa sentire piccolo, e inerme. E’ veramente il proverbiale piccolo battito d’ali che scatena valanghe a distanza, peggio di un terremoto, che era un tipo di emergenza alla quale, in qualche modo, eravamo preparati. Ma questo… Mi fa pensare alla peste di Manzoni, che ho sempre sentito così lontana… Il tempo che stiamo vivendo ha il respiro pauroso del mondo com’è davvero». Per essere uno che - per sua stessa e onesta ammissione -, all’inizio aveva preso il Coronavirus sottogamba, Cristiano Cavina vede nell’emergenza che stiamo affrontando i crismi di «quello che certamente finirà nei libri di storia». Lo scrittore casolano ha sempre mostrato grande sensibilità nel raccontare non solo e non tanto la sua generazione, quanto soprattutto lo spirito delle piccole comunità, come quella di Casola Valsenio, dove tuttora vive. E non senza qualche, inevitabile, difficoltà.
«Stare chiusi in casa 24 ore al giorno con due bambine piccole non è la cosa più facile del mondo - dice Cavina -, perché per quanto le ami ci sono dei momenti in cui davvero fatichi a reggerle, e non puoi manco uscire o portarle fuori! Mi scasso un po’ con le bambine, insomma, ma ci sono anche tanti momenti divertenti, ci mancherebbe altro. Chiaramente la vita di tutti i giorni risente enormemente del virus e del distanziamento sociale, tanto che il mio figlio maggiore, che vive a Riolo Terme con la madre, nell’ultimo mese l’ho visto di persona una volta in tutto e lo sento in videochiamata. Con gli anziani cerchiamo di fare lo stesso, è una forma di tutela per tutti. Io lavoro la mattina presto, quando le bambine dormono, esco in terrazzo a fumare, parlo con un amico che sta nel palazzo di fronte, leggo un sacco di notizie sulla situazione dell’emergenza, quindi non ho il problema di “far sera”. La cosa forse più difficile è ragionare con alcuni anziani, che vedo spesso in giro, anche in gruppetti, o magari a far la spesa tre volte al giorno. Sono un po’ troppo senza pensieri...».
Ho l’impressione che molti, di questi tempi, abbiano scoperto che il buon senso non è per forza una prerogativa degli anziani. D’altra parte, parliamo di anziani che sono stati giovani negli anni del boom economico…
«Penso infatti che questo sia determinante. La generazione di mio nonno fece la guerra, ma i miei genitori e i loro coetanei hanno vissuto il momento migliore della storia d’Italia. Hanno fatto una buona vita, potuto contare sul lavoro, il posto fisso, la pensione… Alla fine è pure normale che si sentano spaesati anche più di noi, di fronte a un’emergenza del genere. Si dice sempre male dei giovani ma io, ad esempio, di ragazzi in giro non ne vedo e loro sicuramente son capaci di informarsi in autonomia».
E la tua generazione?
«Oggi sembra sciocco, ma per tanto tempo ho pensato che alla mia generazione mancasse l’esperienza della guerra, però adesso affrontiamo qualcosa di epocale, che rimarrà nei libri. Davvero in questo periodo si vive la vita al suo peggio e al suo meglio, tutto insieme. E’ una cosa che mette paura e senso d’avventura nello stesso tempo. Io non sono anziano, ma sono asmatico e ho il vizio del fumo, quindi questo virus mi spaventa. E’ una sensazione che mi mette di fronte all’essenza delle cose, a ciò che veramente è importante. Scendendo a un livello più prosaico, beh, chi ha figli ha già capito che le scuole non riapriranno e non ci sarà, probabilmente, neanche il Cree per l’estate. E anche i nonni è meglio tutelarli, azzerando i contatti coi nipoti. E’ impegnativo ma anche bello, sta a noi trasformarla in un’opportunità che pochi genitori, a pensarci bene, hanno avuto».
La comunità come sta reagendo?
«Secondo me siamo abbastanza bravi. Dobbiamo pensare che siamo chiusi in casa da 40 giorni e non si vedono le strade affollate o i barbecue in giro che vedi a Londra! Tutti prendono sempre per i fondelli gli italiani, e certo, non saremo stati perfetti e degli errori ne sono stati commessi, d’accordo, ma non mi sembra che gli altri, i popoli che di solito parlano male di noi, si stiano dimostrando dei fuoriclasse… E avevano pure del vantaggio, mentre noi siamo stati i primi europei ad affrontare l’emergenza».
A Casola Valsenio, anche solo vent’anni fa, avremmo detto che il virus non sarebbe arrivato. E invece c’è, seppur meno che altrove. La collina, insomma, non è più isolata. Come si vive questa cosa in paese?
«A Casola di fatto c’è una persona contagiata (tecnicamente 2, ma la seconda non era in paese al momento della quarantena, nda) e oltretutto pare certo che abbia contratto il virus altrove. Però il virus c’è anche qui ed è il segnale di un mondo interconnesso e veloce. Anche l’influenza Spagnola arrivò in collina, intendiamoci, però ci mise un paio d’anni. Si muoveva in carrozza, letteralmente, mentre adesso il Coronavirus ha ben altri mezzi… Ad ogni modo in questi giorni stare a Casola Valsenio è un privilegio, o poco meno. Se abitassi in un palazzo a Bergamo o ad Alzano Lombardo, un paese piccolo come il nostro, sarei meno tranquillo. Ti parlo di cose banali e concrete, come la condivisione degli spazi comuni in un condominio. A Casola non ho problemi a toccare lo stesso interruttore delle scale che han toccato gli altri, ma se qui intorno ci fosse un focolaio importante, beh, il livello di paranoia sarebbe ben altro».
Da scrittore, fai parte di un mondo, quello editoriale, che già non navigava nell’oro prima, e che adesso affronta una crisi difficilissima. Cosa vedi all’orizzonte?
«E’ già impegnativo vivere alla giornata, ma devo dire che in questo momento fare lo scrittore è più semplice che fare il librario o l’editore, anche se ovviamente siamo tutti connessi e le loro difficoltà sono in parte anche le mie. Le consegne dei libri a domicilio non hanno bloccato del tutto il mercato e io posso lavorare anche da casa. Ad esempio adesso sto curando, per Mondadori, la prefazione alla nuova edizione del Fu Mattia Pascal. Più in generale, posso sempre pubblicare come e-book delle cose che ho scritto. Sono, invece, francamente un po’ perplesso sugli instant book distopici che molti scrittori stanno pubblicando, a mio avviso frettolosamente, perché questa pandemia è qualcosa che digeriremo a lungo, non la possiamo comprendere in così poco tempo. Figurati che io mi sono anche chiesto, in questi giorni, che senso avesse scrivere, proprio in assoluto. Ripensando a certi miei libri, per un attimo ho pensato che, boh, oggi apparirebbero frivoli, privi di significato. Poi immagino che in realtà torneremo a leggere, e ad aver voglia anche di leggerezza, però certe domande, con questa serietà, non me le ero mai fatte prima. Tornando al mio lavoro, penso che sarà abbastanza difficile portare avanti i corsi di scrittura creativa. Ci stiamo attrezzando per le conferenze on-line, però il mio modo di tenere questi corsi si basa molto sull’interazione e sulla pratica, quindi preferirei decisamente farli dal vivo. Le presentazioni di libri probabilmente torneranno, in qualche forma, ma ad esempio non so dire se e quando torneranno i concerti da 20mila persone, per quelli il futuro è più fosco. Per quanto ne capisco, ora l’urgenza è liberare le terapie intensive e decongestionare gli ospedali. Una volta ristabilita la normalità del sistema medico, credo si tornerà per gradi alla vita di prima, potendo appunto contare su un sistema medico a pieno regime, non stressato dall’emergenza. In questa situazione di incertezza su più fronti, lavorare in un settore fragile come l’editoria è comunque meglio che avere un bar o un ristorante. Rispetto a loro devo ritenermi fortunato, mentre chi ha tutele e stipendi fissi se la passerà meglio di me, probabilmente. Questo virus non impatta allo stesso modo su tutti quanti e non mi piace l’abuso dell’immagine della “livella” che ora va tanto di moda, è una retorica grossolana»
Non siamo tutti sulla stessa barca, insomma…
«Siamo tutti nello stesso mare, questo sì. Ma ci sono yacht e zattere. Non è una differenza da poco».