Alluvione un anno dopo, il ricordo della faentina Rossella Sbarzaglia: «Restano la paura che possa ricapitare e l’amarezza per le promesse non rispettate»
Marianna Carnoli - «Non è facile rivedere video ed immagini di quei giorni, mi scoppia un forte mal di testa. Non posso dimenticare, ma ho cercato di fare in modo che quei ricordi non fossero così vivi nella mia mente». Rossella Sbarzaglia abita infondo a via Ragazzini. Il suo appartamento al primo piano di una palazzina che ne conta due non è stato toccato dalla prima alluvione, ma è stato danneggiato dalla seconda. Rossella e sua figlia, dopo un anno, sono ancora fuori casa. E devono considerarsi pure fortunate perché fanno parte di quel gruppo di persone che ha trovato un’alternativa stabile: da quel maggio 2023 vivono nell’appartamento del compagno di Rossella, «mia figlia di 24 anni nello studio, i miei cani si sono adattati all’assenza di giardino: tiriamo avanti. La sera del 2 maggio eravamo in parrocchia quando mi è arrivato un messaggio che spiegava che il Comune stava allestendo con brandine il Palazzetto dello sport. E quasi in contemporanea, un’amica insegnante è stata informata che il giorno successivo la scuola sarebbe rimasta chiusa. Eravamo sorprese, ci siamo chieste cosa stesse succedendo: nessuno ci aveva avvisate di un pericolo imminente, nessun annuncio ufficiale da parte delle istituzioni. Così, sono tornata a casa con mia figlia e ci siamo messe a letto. Fino a quando ho sentito i vicini che urlavano di spostarsi ai piani alti. Sono corsa in cantina dove avevo radunato alcune cose a cui tenevo molto, dopo l’incursione dei ladri in casa di 5 mesi prima. Sono riuscita a prenderle al volo mentre l’acqua avanzava, poi siamo andate dai vicini e quando siamo potute rientrare abbiamo visto che l’acqua aveva invaso le cantine e il piano terra della nostra palazzina. Ho pensato alle lavanderie, alle tavernette delle persone che abitano nella mia stessa via. I soccorsi sono stati tempestivi: con i canotti portavano caricabatterie per cellulari, cibo e medicinali in un paesaggio surreale. Hanno iniziato ad arrivare tante persone: amici, conoscenti, volontari armati di un badile e di un sorriso. Non sapevo da che parte iniziare: dovevo chiamare il carro attrezzi per portare via le auto che avremmo potuto salvare fossimo stati avvisati per tempo. Ho pensato che, comunque, ero stata fortunata: io, mia figlia e i nostri cani stavamo bene, l’appartamento era salvo». Rossella è comprensibilmente scossa per l’accaduto così dà carta bianca ad alcuni amici fidati che l’aiutano a svuotare la cantina. «Era tutto da buttare, vedere le mie cose piene di fango e ormai senza forma, ammassate in strada mi ha tolto il fiato». Iniziano giorni di lavoro, «uscivo di casa al mattino e rientravo alla sera dal mio compagno sfinita, con i piedi fradici e piena di fango. Non ho mai vissuto la guerra, ero contenta che i miei affetti fossero salvi, ma mi chiedevo cosa sarebbe stato di noi “dopo”, quale sarebbe stata la quotidianità». Il 16 maggio s’inizia a parlare di una nuova perturbazione, «ho portato in casa dalla cantina una bici che avevo pulito dal fango e un deumidificatore. Nel pomeriggio mi chiama una vicina che si era trasferita da parenti dopo la prima alluvione e mi avvisa che l’acqua del fiume è pericolosamente alta. Ricordo che ho pensato che non poteva succedere di nuovo, chiedo ai ragazzi della Protezione civile con cui avevamo fatto amicizia che mi rassicurano». Alle 16,30 Rossella decide di lasciare di nuovo la sua casa con figlia e cani al seguito, viene accompagnata dai volontari in corso Saffi e raggiunge a piedi via XX settembre dove vive il suo compagno. La notte la passa in bianco a fare da tramite tra le comunicazioni che le gira il vicesindaco e i diversi vicini che non riescono a contattare il numero fisso attivato dal Comune. Le arrivano video di persone che girano in canotto nella sua via e le dicono che l’acqua ha raggiunto i 5 metri. «Non sapevo come avrei trovato casa mia. Quando siamo potuti rientrare ci hanno accompagnato i vigili del fuoco che hanno sfondato la porta del mio appartamento e poi sono entrati in quello di mia madre che è di fronte. Mi sono messa a piangere: nel suo che non avevo ancora toccato dopo la sua recente scomparsa, non c’era quasi nulla da salvare. Il mio l’avevo ristrutturato nel 2000: il pavimento in legno era tutto sollevato, gli arredi zuppi: l’acqua era arrivata ad un metro di altezza». Da quel momento tante persone hanno aiutato Rossella che si è affidata al alcuni artigiani per ripristinare il suo appartamento e spera, ma non ne è certa, di rientrarci a luglio. Quello che le resta è l’amarezza: per il quartiere che è stato abbandonato da alcune famiglie, per la svalorizzazione degli immobili, per i tanti esponenti di destra e sinistra che sono passati promettendo di tutto «senza essere minimamente collegati con la realtà», per la burocrazia inutilmente complessa per i rimborsi, per l’Imu che deve pagare sulla casa della madre che non ha ancora sistemato e che le verrebbe abbonato se affittasse a un alluvionato. Resta anche la paura che possa risuccedere, che l’acqua non sia “buona” come lo era prima. «La disperazione dei primi tempi non c’è più, ho risistemato il giardino cui mia madre teneva molto: ci ho piantato rosmarino e basilico,ma non mi fido a mangiarli, mi chiedo quanto fango sia rimasto nel terreno. Sono una cittadina che paga le tasse e si riconosceva nelle istituzioni, ma in quest’occasione mi sono sentita orfana: non riesco più a fidarmi né affidarmi».