Ravenna, attacco al monumento del Ponte degli Allocchi, lo storico Baravelli: "Serve una discussione pubblica"

Ravenna | 29 Febbraio 2020 Cronaca
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Federica Ferruzzi
Prima la profanazione del sacrario di Camerlona, poi gli sfregi sul monumento di Giò Pomodoro in memoria delle dodici vittime del Ponte degli Allocchi, uccise dai fascisti nel 1944 per rappresaglia contro l’assassinio dello squadrista Leonida Bedeschi. Sono questi i due episodi accaduti a poca distanza l’uno dall’altro che rivelano, anche in provincia di Ravenna, un clima di recrudescenza fascista che si pensava superato. Ma cosa ci dicono, della società, queste vicende? E, soprattutto, come vanno affrontate? A fornire una lettura è lo storico Andrea Baravelli, che propone un approfondimento a più voci sul tema. «Ci ho riflettuto molto - spiega il docente universitario -: sono rimasto colpito dalla frequenza con cui sono accaduti questi fatti e sono convinto che non siano ragazzate. C’è una modalità di operare che a me ricorda le logiche squadriste di un secolo fa, le “famose” spedizioni. Come allora, oggi assistiamo ad un processo simile di conquista del territorio, ma la differenza è nel tipo di affermazione, che oggi è simbolica e si manifesta con la presenza mediatica. A livello locale è una partita tutta da giocare: in zone come la nostra, dove i gruppi neo fascisti non hanno attecchito, si cerca di essere presenti con azioni come queste». Per Baravelli, quindi, gli imbrattamenti sarebbero una strategia di conquista della scena mediatica e non il frutto di una «ragazzata». «Un ragazzotto di vaghe idee neo fasciste non sa chi sia Artioli (Ivano, il presidente dell’Anpi il cui nome è stato scritto con spray nero, preceduto da un “Ciao”, sul monumento al Ponte degli Allocchi, ndr); può limitarsi a scrivere due “esse”, a disegnare una croce celtica, ma si ferma a quello. La scritta “Ciao Artioli” è al tempo stesso una firma e un’intimidazione e riconduce all’agire squadrista di un secolo fa. La violenza è, prima di tutto, comunicazione: comunicare al tuo avversario che tu hai chiaro l’obiettivo equivale ad intimidirlo e a legittimare la presenza sul territorio». Alla luce di questo, per lo storico, occorre una riflessione a più voci su quanto accaduto. «La ricerca della copertura mediatica è voluta ed è per questo che occorre capire come parlare di questi episodi. Nel momento in cui se ne parla, anche con toni indignati, li si trasforma in soggetti presenti all’interno del dibattito pubblico, e così facendo si legittima anche quello che hanno da dire. Il problema, quindi, è reale e sono convinto che questi fatti non vadano rincorsi ma approfonditi: la questione va ampliata non usando il registro della retorica più indignata, ma cercando di capire cosa c’è dietro a simili gesti e perchè si stanno diffondendo. Occorre una ricognizione più ampia insieme a storici, politici e istituzioni per tracciare un quadro il più completo possibile. A queste persone non si deve rispondere solo con la gogna, ma se ne deve parlare in maniera approfondita. Occorrono più tempo e più fatica, ma il risultato è piu efficace, anche perchè il pericolo è che, usando toni diversi, la parte cattiva diventi simpatica». Citando il libro di Claudio Pavone dei primissimi anni Novanta, saggio storico sulla moralità nella Restistenza dal titolo «La guerra civile», Baravelli ricorda che non ci sono più alibi, in quanto «questo saggio ha aperto occasioni di studi e di ricerca, i fatti a cui oggi ci riferiamo sono stati spiegati e sviscerati. Quello che è successo nei giorni scorsi dovrebbe far cogliere la palla al balzo per organizzare una grande discussione pubblica, coinvolgendo anche quegli esponenti della destra che vogliano mettersi in discussione, senza utilizzare l’occasione come tribuna per una propaganda spicciola».
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