Caterina Penazzi
Da bambino di una tribù della Tanzania a realizzato dottore faentino. Il dottor Omar Giama si racconta alla redazione del Castoro.
Da quanto tempo e per quale motivo risiede in Italia?
«Dal 1966. Sono stato ospitato da una famiglia composta dal preside del liceo classico di allora, Giuseppe Bertoni, e da sua moglie, che dirigeva la scuola di Santa Chiara. Il preside aveva deciso di attuare un progetto grazie al quale alcuni bambini del Terzo mondo sarebbero andati ad abitare in famiglie italiane, per essere istruiti e avere la possibilità di una vita diversa. Io sono stato uno tra questi, accolto da una famiglia, che ora considero mia. Il progetto non prevede una vera e propria adozione, ma consiste semplicemente nel prendersi cura di un bambino, farlo crescere moralmente e culturalmente, secondo usi e costumi italiani e offrirgli opportunità di vita migliori, pur mantenendo la possibilità di conservare legami con la famiglia d'origine. Mi sento quasi adottato, quando in realtà sono stato solo ospitato».
Ha trovato difficoltà a inserirsi in una città di provincia come Faenza?
«Visono arrivato nella seconda metà degli anni Sessanta. Ero allora il primo e unico bambino africano della città e sicuramente questa è stata per me una grande fortuna. Non c'erano atteggiamenti razzisti. Non ho trovato difficoltà d'integrazione, anche perché sono stato inserito a Faenza direttamente all'interno di un contesto familiare».
Com’è stato il suo percorso scolastico?
«Ho iniziato frequentando la quarta elementare, sostenuto negli studi dalla mia famiglia, in particolare da mia madre. Finita la terza media mi sentivo in grado di intraprendere qualsiasi scuola, così ho scelto il liceo classico. Sono stati gli anni più belli della mia vita, quelli in cui ho iniziato a conoscere la cultura classica, ma soprattutto quella italiana. Sono stati per me motivo di riflessione sulla mia identità e sulla mia origine. Successivamente ho studiato medicina a Bologna, specializzandomi in medicina d'urgenza. Ora lavoro al Pronto Soccorso».
Ha un ricordo a cui è particolarmente legato?
«Ricordo con molto affetto vari insegnanti tra cui la professoressa Rivalta del ginnasio, che è stata a scuola per me come una mamma; il professore Prelati di latino e greco e Renzi di storia e filosofia».
Si è occupato di volontariato nell'ambito sociale: quando e in che modo?
«Ho fondato l’associazione Faenza Multietnica. Il suo scopo è quello di fare in modo che chi è straniero e ha avuto la possibilità di venire a Faenza, sia realmente utile per la crescita della città. Mi sono posto diverse domande: cosa posso fare per la comunità che mi ha cresciuto, aiutato e mi ha formato culturalmente? Secondo me, chi è straniero deve essere messo in grado di partecipare alla vita cittadina e contribuire al suo arricchimento. Questo è il miglior modo per integrarsi. Inoltre nel 2014 abbiamo promosso la manifestazione One day in Africa per diffondere le caratteristiche della cultura straniera».
Ha intrapreso anche una carriera politica. Per quali ragioni?
«Mi sono candidato alle elezioni provinciali e sono stato eletto come consigliere. Con questo incarico volevo dimostrare che in qualche modo mi sono impegnato per la città. Ero candidato con La Margherita e questo ha avuto risonanza anche nel mio paese d'origine».
Quali sono le sue considerazioni in merito al problema migratorio?
«Certamente la situazione politica in Italia è incerta. I governanti, infatti, nei confronti dei migranti hanno una visione miope, non si rendono conto che essi migrano perché l'unica opportunità è quella di andare via da un paese in cui non hanno speranze di vita, di studi e di futuro. Scappano perché nel luogo di provenienza sono talmente discriminati che, affrontare il viaggio in mare, è molto meno rischioso che restare là. Per questo non si può pensare di fermare l'immigrazione. Bisogna cercare di aprire le porte dell'accoglienza, ma può dare buoni frutti anche aiutare le persone in loco: io ho aiutato i miei fratelli in Tanzania, che non sono dovuti venire in Italia, ma hanno avuto la possibilità di istruirsi nel loro paese, perché pagavo loro la retta scolastica».
Come vede il futuro dell’integrazione dei migranti nella nostra città?
«L'importante è che la comunità non li ghettizzi e che Faenza diventi un laboratorio per una società multietnica. È importante che queste persone siano impegnate dal punto di vista sociale e politico, ma anche in istituzioni e associazioni, per sentirsi parte attiva della collettività. Io ho la pelle nera, ma mi sento assolutamente italiano e faentino. Conosco anche il dialetto romagnolo. Sicuramente il lavoro all'interno della società, come medico e consigliere provinciale, mi ha fatto sentire ancora più parte della città».
Come ha visto cambiare Faenza in questi anni e che cosa spera per lei nel futuro?
«Sono ottimista, ho visto cambiare Faenza in positivo. Si sono formate associazioni di volontariato, con il coinvolgimento di ragazzi, che hanno dato un grande contributo. La gente ha disponibilità e generosità incredibili».
È mai tornato al suo paese d'origine?
«Sì, due volte. Ho portato mia figlia, che all'età di diciotto anni ha espresso il desiderio di incontrare la famiglia d'origine. Certo, il mio paese d’origine è la Tanzania, ma io considero la mia patria l'Italia perché come dice Cicerone, citando Pacuvio: “Patria est ubicumque est bene”».