Barbara Gnisci
Una tavola imbandita con tè, frutta, dolci tradizionali e due occhi vividi che trasmettono una gran voglia di raccontare sono ciò che mi accoglie a casa di Navid Gholami. Il giovane 24enne, afgano che vive in provincia di Ravenna, comincia subito a narrarmi delle sue origini e di ciò che ha lasciato nel suo Paese: «Li ho persi tutti i desideri che avevo da piccolo. Non ricordo più nemmeno quali fossero. Ultimamente, però, comincio ad averne di nuovi. Mi piacerebbe fare il cuoco. Sarebbe bello avere un ristorante tutto mio».
Navid è arrivato a Bologna il 25 dicembre 2019 con un volo aereo, passando da Istanbul. Ad attenderlo all’aeroporto c’era suo fratello Basir, di 5 anni più grande, giunto in Italia già da tempo: «Sono stato fortunato ad avere lui. C’era anche mia madre, ora è in Afghanistan. Era tornata in primavera per andare a trovare i nostri fratelli e non riesce più a partire». Navid invece, a Herat, la loro città, non può più tornare. Arrivato in Italia per un ricongiungimento familiare, fallito a causa della mancanza di alcuni documenti, ha ottenuto comunque la protezione sussidiaria: «Io nel mio Paese sarei in pericolo. Mentre ero lì più di una volta ho provato a scappare, ma sono sempre stato preso e rimandato indietro».
Chi ci è riuscito al primo tentativo ad arrivare in Italia è Basir, che racconta di un viaggio estenuante: «Ci ho impiegato un anno. Sono passato attraverso l’Iran, la Turchia, la Grecia. Arrivato in Italia sono andato in Francia e in Germania, per poi essere rimandato qui allo strenuo delle forze. Ho viaggiato a piedi, a cavallo, su camion di passaggio. La mia idea non era di arrivare in Italia, ma di andare via dall’Afghanistan. Lì, le condizioni di vita sono difficili per tutti. Ricordo perfettamente l’arrivo dei Talebani nel 1996. Avevo paura. Vedevo gente picchiata per strada, trascinata con una catena legata alla macchina in corsa, bombe che scoppiavano a ogni angolo».
Distolgono lo sguardo, Navid e Basir, quando pensano alla loro famiglia, al padre che non c’è più: «Ogni tanto dovevamo abbandonare tutto e andare in Iran per sentirci al sicuro – continua Navid -. Ed è per questo che io e i miei fratelli non abbiamo potuto studiare. Io sono andato a scuola fino ai 13 anni. Ogni volta che tornavamo ad Herat, si doveva ricominciare».
I fratelli, che lavorano entrambi in una azienda del territorio, sono preoccupati per la condizione attuale nel loro Paese. Con noi c’è anche Arezo, la moglie di Basir, arrivata da qualche mese, che partecipa alla conversazione come può, ma si accorge quando parliamo del ritorno al potere dei Talebani: «La sua famiglia – racconta il marito – ha tentato di uscire dal Paese. Sono stati in aeroporto 4 giorni e sono tornati a casa, dove sono tuttora chiusi dentro, due giorni prima dell’attentato di Kabul. I suoi zii, che hanno lavorato come interpreti per alcuni americani, ora vivono negli Stati Uniti e sono riusciti a far ottenere un Visto ai suoi genitori e alle sue sorelle, ma è stato tutto inutile. Anche io sto cercando di contattare l’Ambasciata, ma per ora non si muove niente». Intanto l’aria si fa fresca, il cielo si tinge di rosa e arancione, è l’ora del tramonto e della preghiera per Navid che, dei tre, è quello che pratica più assiduamente. Prima di andare via Arezo mi prende per mano e mi conduce nello studio. Ci sono i suoi quadri. Una giovane donna mezza velata e mezza no mi fissa intensamente. Arezo chiede al marito di dirmi che rappresenta la condizione delle donne nel suo Paese. Vorrebbe comunicare con me, dirmi di più. Me ne accorgo dal suo viso, dalle mani che indicano i ritratti. E allora ci scambiamo il numero di telefono. Presto imparerà l’italiano e avrà modo di condividere con me le sue parole, che forse saranno anche quelle di tante altre donne afgane».