Faenza, al Mic in mostra 75 opere di Cerone, parla il curatore Tonelli: «Artista solitario, nato alla Bottega Gatti

Elena Nencini
A 20 anni dalla scomparsa di Giacinto Cerone, scultore originale e solitario, il Museo internazionale delle ceramiche di Faenza propone un’interessante retrospettiva sull’artista con 45 opere tra sculture di vari materiali (legno, ceramica, plastica, metallo, marmo, gesso, pietra), ma anche 35 disegni, di cui alcuni di grandi dimensioni. La mostra «Giacinto Cerone. L’angelo necessario. Sculture e disegni» inaugura venerdì 18 alle 11 e resterà aperta fino al 27 aprile. Morto a soli 47 anni, le sue opere sono animate da un’inquietudine profonda: aggredisce la materia, con gesti rapidi e incisivi. Tagli, torsioni, lacerazioni diventano la sintesi formale della prorompente composizione plastica dello scultore. A curare la mostra Marco Tonelli che racconta il significato profondo per Cerone della scultura e del suo legame unico con Faenza.
Tonelli, qual è l’attualità di Cerone?
«E’ stato un artista che si è smarcato, per poetica e per carattere, da qualsiasi raggruppamento: ha cominciato a Roma negli anni ‘80 nel momento della Transavanguardia, ma si è tenuto in disparte da qualsiasi raggruppamento. Ha fatto un percorso solitario – anche se molto apprezzato - sulla scultura, da Martini a Fontana, fino ai Normanni di cui subiva una grande fascinazione. Amava sperimentare e per questo non si è fossilizzato su una sola tecnica o materiale. Per lui la scultura era una modalità di resistenza come nella serie i Fiumi vietnamiti, un’affermazione della libertà del sè. Ma amava molto anche la poesia e il jazz, in particolare Charlie Parker e Sandro Penna. Potremmo dire che era un solista della scultura, ha lavorato come un improvvisatore».
Cosa ha rappresentato Faenza per Cerone?
«A Faenza nel 1993 inizia a collaborare con Davide Servadei alla Bottega Gatti: dopo aver fatto sculture in ceramica ad Albisola, qui codifica un metodo di lavoro. Era uno scultore che lavorava di getto, che bucava la materia, lavorava in modo non ortodosso. Interpretando la sua gestualità, Servadei gli fornisce dei blocchi vuoti di argilla che Cerone lacera con le mani, sottopone a torsioni, rotture, squarci, fino a batterli con un tubo. Per Gatti realizza una serie di ceramiche smaltate di forte espressività, sperimentando unagrande varietà di colori, come un rosso con una punta di arancio, un ‘Rosso Cerone’. In città ha trovato una dimensione ceramica importante».
Un’opera particolare che preferisce?
«L’opera che personalmente mi colpisce ogni volta che la rivedo è l’Ofelide, un’autorappresentazione di un monumento in ceramica bianca a Ofelia, figura tragica ma bellissima, che Cerone interpretava come il riflesso della propria morte. Dal 2004 riflette sul mito di Ofelia, sul biancore e sulla sua orizzontalità, il suo doppio che stava dietro la morte».
Ogni domenica, alle ore 11, visita guidata inclusa nel prezzo del biglietto.