Elisa Attanasio, ricercatrice all’Università di Bologna racconta i migranti sulla rotta balcanica

Emilia Romagna | 02 Aprile 2025 Blog Settesere
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Simona Farneti - Non è un gioco, ma lo chiamano così: alla rotta migratoria nei Balcani è stato attribuito il nome game. «Le vie sono talmente difficili, i respingimenti frequenti e gli stalli continui, che si è cominciato a usare questo termine per indicare, appunto, il ‘gioco’ delle partenze, degli attraversamenti rischiosi, dei ritorni aleatori e delle attese insensate, forse per esorcizzarne la tragicità». Queste le parole di Elisa Attanasio, ricercatrice in Letteratura italiana contemporanea all’università di Bologna e da anni attivista e volontaria sul corridoio migratorio nei Balcani. A pochi mesi dalla pubblicazione del suo reportage Sulla rotta balcanica, la redazione de Il Castoro le ha rivolto alcune domande di approfondimento. Servendosi di testi e di fotografie, Attanasio ha infatti documentato quello che, a causa dell’instabilità politica, sociale ed economica in varie regioni del Medio Oriente, dell’Africa e dell’Asia, è diventato il più importante corridoio migratorio via terra. Ogni anno, infatti, più di 145.000 persone percorrono questa rotta, nata negli anni ‘90 con l’intensificarsi dei conflitti nei Balcani e la disgregazione della Jugoslavia. L’itinerario collega la Grecia all’Europa occidentale, attraverso Bulgaria, Romania, Albania, Macedonia settentrionale, Kosovo, Montenegro, Serbia, Bosnia-Erzegovina, Slovenia e Croazia.
Come nasce l’idea di documentare il suo viaggio?
«La mia prima esperienza sulla rotta balcanica risale a maggio 2022, quando sono partita per Atene senza la minima intenzione di documentare il viaggio. Un giorno, però, durante una breve incursione a Patrasso, io e altri attivisti ci siamo imbattuti in una fabbrica abbandonata vicino al porto. Lì, in una stanza resa nera da un fumo denso, ho illuminato con la torcia del telefono le gambe di un ragazzo. Nel tentativo di raggiungere Ancona si era aggrappato sotto a un camion, non rendendosi conto di quanto quella parte si surriscaldasse velocemente. Ha cercato di resistere il più possibile, ma non ce l’ha fatta, è caduto. Aveva ustioni di quarto grado su tutto il corpo. Di fronte a questa scena infernale ho deciso che non sarei rimasta in silenzio. Dopo avere abbandonato, a seguito di alcune vicissitudini, il mio progetto iniziale, quello di un documentario, sono ritornata sulla rotta balcanica come solidale e ho deciso che avrei parlato di ciò che vedevo attraverso un blog. Ad agosto 2023, poi, l’editore milanese Prospero mi ha contattato e mi ha proposto di trasformare il mio blog in un libro. Sulla rotta balcanica nasce proprio così».
Scrivere significa scegliere cosa raccontare e cosa lasciare fuori. Come ha scelto cosa dire? E che ruolo hanno le foto?
«Le giornate erano piene, non avevo modo di prendere appunti. Così, la sera riguardavo le foto che avevo scattato durante il giorno e mi lasciavo guidare, cercando di ricostruire un racconto all’interno del quale parole e immagini potessero instaurare un rapporto semplice e funzionale, che permettesse loro di dialogare in modo complementare».
Dopo aver scelto cosa dire, ha pensato a come farlo. Come ha ragionato?
«Di fronte a tematiche così delicate siamo abituati a due tipi di narrazione: la prima porta alla spettacolarizzazione del dolore della vittima, la seconda alla trasformazione della stessa in una figura eroica che, dopo innumerevoli vicissitudini e contando unicamente sulle proprie forze, riesce a salvarsi. Se avessi seguito una di queste due piste, avrei sentito di compiere un atto di colonialismo sulle loro storie. Ho quindi cercato di eludere il rischio di spettacolarizzare il dolore altrui lasciando fuori ciò che non sarei stata in grado di spiegare senza sfociare nel patetico. Ho, inoltre, cercato di limitare il più possibile ogni tipo di giudizio e ciò si traduce nella quasi totale assenza di tutto ciò che può arricchire una frase. Il risultato? Uno stile asciutto e distillato, una sintassi scarna, paratattica ed essenziale. Quanto alle foto, mi sono limitata a immortalare le tracce stratificate di passaggi che continuano, inesorabilmente, a ripetersi. In quanto reporter e volontaria, rivesto inevitabilmente una posizione ‘privilegiata’. Non posso cambiare il mio passaporto o il colore della mia pelle, ma ho il buonsenso di non puntare l’obiettivo contro una persona sofferente, salvo esplicita richiesta della stessa».
In più punti parla dell’importanza di qualcuno che faccia da ‘palo’. Ciò è illegale? E che valore ha la «disubbidienza civile»?
«Portare un tè caldo o una coperta termica a una persona in difficoltà non è illegale. Se, però, la si aiuta ad attraversare il confine, si incorre nel reato di favoreggiamento all’immigrazione clandestina. In generale, le organizzazioni con cui collaboro operano al limite del consentito. Per legge abbiamo il permesso di intervenire con piccole medicazioni, ma non possiamo distribuire medicine, cosa che però facciamo. Ciò richiede l’adozione di una serie di misure e avere qualcuno che faccia da ‘palo’ è una di queste. Del resto, di fronte a delle leggi che violano il diritto alla vita, la disobbedienza civile è non solo importante, ma necessaria».
Vorrebbe tornare sulla rotta balcanica?
«A gennaio sono partita per Harmanli e ne sono stata provata emotivamente. Quello bulgaro-turco è un confine dimenticato, sul territorio non operano che due piccole organizzazioni. Come se non bastasse, da quando, l’1 gennaio 2025, la Bulgaria è entrata nell’area Schengen, il confine è molto più militarizzato e i respingimenti sono continui. Come forse traspare dalle pagine del mio blog, sono sempre più stanca, frustrata e arrabbiata. A volte provo una sorta di impotenza paralizzante perché mi rendo conto che, su larga scala, non vi è alcun miglioramento, anzi, la tendenza degli stati è quella di rendere ancora più stringenti le misure sui confini. D’altro canto, però, quando sono sul luogo mi accorgo di quanto alcune piccole cose siano importanti. Parlo della solidarietà, del semplice scambio tra esseri umani. Cerco di allontanare da me l’idea dell’eroina che sopraggiunge e salva vite e mi concentro sull’importanza che il mio gesto può avere per le persone che incontro. Forse è proprio in questo senso che fare attivismo ha ancora un significato. Non mi fermo: forse, tra marzo e aprile, partirò per il confine polacco-bielorusso con il gruppo di attivisti del film Green Border».
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