A colloquio con l’ex dirigente del Liceo, Luigi Neri: «Il Sessantotto: un’eredità impossibile»

Emilia Romagna | 06 Aprile 2025 Blog Settesere
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Paola Laghi - Il 1968 rappresenta un anno simbolo di cambiamento radicale, un periodo in cui i giovani occidentali si sono resi protagonisti di una rivolta culturale, sociale e politica volta a mettere in discussione le istituzioni. Tutti i luoghi pubblici: piazze, scuole, università e addirittura chiese divennero luoghi di protesta, di richiesta e di pretesa della libertà. I giovani trovarono nella contestazione il mezzo per esprimere le proprie aspirazioni e l’insofferenza verso un ordine che percepivano opprimente. Come mai adesso i giovani fanno fatica a lottare contro un sistema ancora percepito dalla maggioranza come ingiusto? Luigi Neri, ex preside del liceo Torricelli-Ballardini, risponde a questa domanda analizzando il fenomeno del ‘68.
Quali furono le prime scintille del ’68 e perché?
«Preferirei cominciare dal “perché”. Il clima era impregnato di vapori infiammabili ed è per questo che una semplice scintilla era sufficiente per fare scoppiare l’incendio. Coloro che erano giovani nel ’68 erano nati più o meno tra il 1945 e il 1952. Erano quindi figli dei soldati della Seconda Guerra Mondiale. La guerra si era conclusa con una promessa di pace e di democrazia. Ma non fu così, si viveva sempre nella paura di nuove guerre con la minaccia della bomba atomica. Gli adulti apparivano i principali responsabili di questo tradimento generazionale. Numerose canzoni, italiane e non, lo testimoniano: De André, Gianni Morandi e Bob Dylan sono solo alcuni tra gli esponenti di questo fenomeno. Oltre a ciò, il benessere stava trasformando i paesi industrializzati. Venne avviato il processo di scolarizzazione di massa. Molti più giovani di prima potevano permettersi di intraprendere una carriera universitaria. Le Università erano, però, ancora arretrate, non pronte ad accogliere così tanti studenti».
Quali furono i più rilevanti cambiamenti di costume?
«Nei primi anni ’60, in Europa furono messi in commercio i nuovi mezzi contraccettivi. Da allora, le donne dei paesi occidentali poterono decidere se accettare il ruolo riproduttivo. Anche la Chiesa cattolica, con il Concilio Vaticano II, manifestò un’apertura al nuovo, in una maniera nemmeno immaginabile prima. A Trento un esponente della contestazione tentò di aprire un dibattito con un prete durante un’omelia. Si voleva introdurre il libero dibattito anche nelle chiese ed era ancora forte l’attrazione che esercitava il comunismo. Il modello sovietico appariva improponibile. Però c’erano altre possibilità: la Cina, Cuba, il cosiddetto Terzo mondo. Il comunismo era la prova che un’alternativa al capitalismo era possibile. In questo senso, tutti (anche i non comunisti) siamo orfani del comunismo».
Quali erano le principali richieste dei movimenti di protesta in Italia nel ’68? Si era mai verificato qualcosa di simile?
«Non c’era mai stato qualcosa di simile. In precedenza, tra i giovani, gli studenti erano una minoranza. Nel 1966, al Liceo Parini di Milano scoppiò il caso del giornale La zanzara, accusato di oscenità per aver pubblicato un’inchesta sull’atteggiamento delle ragazze nei confronti della sessualità. Poi ci fu l’esplosione della contestazione a Trento. Qui, il Movimento produsse un Manifesto per una Università negativa. Secondo Il Manifesto, l’Università era “uno strumento di classe”, con il compito di formare un apparato tecnocratico allo scopo di sottomettere chi si opponeva al potere».
In che modo le lotte studentesche hanno influenzato la politica del periodo?
«Almeno sulle prime, i partiti di sinistra condannarono gli studenti. Gli esponenti erano infatti ancora prigionieri di una vecchia ideologia, quella per cui i rivoluzionari erano gli operai. Gli studenti, però, erano borghesi. Pier Paolo Pasolini li condannò in una poesia dal titolo “Cari studenti vi odio”, perché erano figli di borghesi, e, commentando gli scontri avvenuti a Villa Giulia (Roma), si dichiarò dalla parte dei poliziotti, in quanto erano loro i veri proletari».
C’è stata una correlazione tra il clima di oppressione e l’intensità della protesta?
«Dai primi mesi del 1968 divampò la guerriglia urbana, gli studenti, dunque, non si fermarono alle occupazioni, ma le manifestazioni diventarono di piazza. A Viareggio, il 31 dicembre, un ragazzo che voleva boicottare il Capodanno in un lussuoso locale, tirando ortaggi sulle persone, fu gravemente ferito dagli agenti. La risposta delle istituzioni fu spesso sproporzionata e non favorì il dialogo, preferendo invece reprimere il movimento con la forza».
Quale impatto a lungo termine hanno avuto le rivolte del ’68? È cambiato qualcosa nella mentalità collettiva?
«Il ’68 voleva un’alternativa al sistema capitalista, ma dagli anni ’80 in poi i sistemi comunisti persero ogni credibilità. Il capitalismo tornò più forte che mai. Probabilmente si capì che il comunismo sovietico o cinese, oltre ad essere dittatoriale, portava alla povertà. Rimase il volto più superficiale del ’68, usi costumi e musica. Certi tabù furono per sempre infranti, soprattutto a livello di rapporti familiari, ad esempio l’atteggiamento nei confronti dei padri. Non c’è rimasto nulla di ‘sacro’, tutto è stato dissacrato».
Che cosa hanno lasciato le rivolte del ’68 a quelle del ’77?
«Nel ’77 ebbero spazio i cosiddetti “creativi”, nonviolenti e trasgressivi rispetto agli stili di vita dominanti. Ma ci fu soprattutto chi scelse la lotta armata, violentemente repressa dalla polizia a Bologna. Eppure mancava un ideale comune per cui lottare, ormai i partiti socialisti tendevano al liberalismo. Del ’77 ci restano le lotte per i diritti degli omosessuali e le nuove battaglie femministe».
Perché i giovani del ’68 reagivano ai sistemi tradizionali e quelli di oggi faticano a farlo?
«Rispetto al sistema capitalistico, non ci sono alternative globali ed è molto difficile pensare al futuro. Emergono però nuovi problemi e ci sono intollerabili disuguaglianze. I cambiamenti del clima e l’avvento delle nuove tecnologie richiedono che si superi il liberismo selvaggio, ma la vecchia cultura marxista non ha più molto da dire. Bisogna ripensare tutto. Oggi riusciamo a unirci alle altre persone senza limiti di spazio, lo spazio si è dilatato, ma il tempo si è contratto, non riusciamo a pensare al futuro distante, non esiste un’attesa profetica di un nuovo mondo».
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