Bagnara: dal ricovero al lutto per la madre, il sindaco Francone racconta il suo mese con il Covid

Bassa Romagna | 28 Novembre 2020 Cronaca
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Samuele Staffa

«Spero che i vaccini arrivino presto e si possa tornare a una vita più normale, ma quanto accaduto non potrà mai essere cancellato». Riccardo Francone, sindaco di Bagnara e insegnante al Polo tecnico  professionale di Lugo, è stato investito in prima persona dal Covid, che ha toccato duro  la sua famiglia e portato via la madre. «Non abbiamo ancora ben capito come abbiamo contratto il virus, facevamo attenzione alle misure di prevenzione – ammonisce -: un motivo in più per tenere alta la soglia di attenzione»
Come è iniziato tutto? Come ha scoperto di essere positivo?
«Martedì 27 ottobre avevo mal di testa, ma non avevo dato molto peso alla cosa. Perciò sono andato al lavoro a scuola, ovviamente utilizzando la mascherina. Una giornata lunga e impegnativa. Nel pomeriggio ho ricevuto la chiamata di mia madre e mio padre che, dopo un poco di mal di gola nei giorni precedenti, avevano qualche linea di febbre. Poi è iniziato il dolore alle ossa e alla muscolatura, soprattutto a collo e spalle. La mattina successiva la mia temperatura è salita sui 37 gradi. Così è iniziato il mio isolamento e, dopo aver contattato il medio di base, ho chiesto un tampone per me e i miei genitori. Il pomeriggio abbiamo fatto il tampone e venerdì è arrivato il responso: tutti e tre eravamo positivi. Un focolaio familiare che ha coinvolto anche mio fratello, ma ha risparmiato la mia famiglia convivente. Nella giornata di venerdì mi sono separato da loro e ho raggiunto i miei genitori».
Come si è evoluta la malattia, tanto da richiedere il ricovero di sua madre?
«Domenica è arrivata la tosse, che diventava man mano più importante. Ho chiesto l’intervento delle Usca, le unità speciali che visitano i pazienti a casa: mi hanno prescritto del cortisone. La situazione sembrava potesse essere gestita a casa, ma sentivo di peggiorare, anche se la febbre era sparita. Tuttavia, attorno a martedì la temperatura ha iniziato a risalire e l’ossigenazione del sangue calava: raccomando a tutti di dotarsi di un saturimetro per tenere moniorato questo importante parametro. Così il giovedì ho chiesto l’intervento del 118».
Che clima ha trovato all’Umberto I?
«In Pronto soccorso sono stato sottoposto a tutti gli esami del caso: qui ho riscontrato grande attenzione, tatto e disponibilità. Il risultato è stato quello che temevo: polmonite bilaterale interstiziale. Il quadro era serio ma, fortunatamente, non drammatico».
Si è dovuto sottoporre a trattamenti particolarmente invasivi?
«La febbre è stata subito trattata con paracetamolo. Poi è iniziata la cura a base i Redemsivir e nel giro di pochi giorni è stato individuato l’antibiotico giusto per abbassare la temperatura. Ho avuto per dieci giorni bisogno di ossigeno, ma é stata sufficiente la mascherina. Per fortuna, dunque, non sono stati trattamenti particolarmente invasivi». 
Ha avuto paura di non farcela?
«In quei giorni ero ovviamente molto preoccupato: sapevo a cosa andavo incontro. Mi preoccupavo molto quando vedevo gli altri pazienti passare dal reparto di medicina alla rianimazione. Ma è chiaro che i ricoverati per Covid sono in un certo senso come degli ‘appestati’: ci sentiamo cosí sapendo di essere contagiosi e pericolosi per gli altri. Il personale medico e sanitario è eroico, appassionato e competente: persone che vivono una situazione molto complicata, fatta di presidi e precauzioni. Siamo sempre stati trattati benissimo, ma è strana la sensazione di costituire un pericolo per gli altri. Utilizzavo il cellulare, soprattutto la messaggistica, perché era difficile respirare e parlare, e ho sentito l’affetto di moltissime persone, che voglio ringraziare. Ma sono sempre stato convinto di farcela. Avevo piuttosto paura per mia mamma, ricoverata pochi giorni prima di me. In questa brutta esperienza, mi son sentito molto vicino a lei. Ho trovato molto conforto anche nella preghiera, nella stessa fede che lei mi ha trasmesso». 
Ora come si sente?
«Purtroppo il giorno dopo le dimissioni sono stato colpito dal grave lutto: è come se mamma, con la generosità di una madre, abbia atteso il mio ritorno sano e salvo a casa. Oggi, a distanza di una settimana dalle dimissioni (martedì 24, nda) mi sento decisamente meglio e sono in isolamento nella casa vuota che fu di sua sorella. Avrei voglia di fare molte cose, ma il mio fisico si affatica facilmente». 
Sarà semplice lasciarsi tutto alle spalle?
«Non sarà possibile. Anche le mie figlie e mie moglie, che hanno dimostrato una volta in più di essere grandi persone, hanno superato una prova veramente difficile in cui siamo rimasti uniti a distanza: questo mi da grande fiducia nelle relazioni costruite e nel senso di amore che regge la mia famiglia. Sono ancora positivo, ma non vedo l’ora di tornare da loro ed essere papà ‘in presenza’. E spero di tornare il prima possibile alle mie occupazioni, Comune e scuola, che mi danno molta linfa vitale. L’amore per le persone che ho attorno e per le cose che faccio aiuteranno a far rimarginare le ferite. Ma le cicatrici rimarranno».
 
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