Massimo Moretti (Wasp di Massa Lombarda): «Una volta eravamo ‘smanettoni’, oggi invece degli innovatori in 3D»

12 Gennaio 2015 Economia
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Da Massa Lombarda al Washington Post come esempio di innovazione, passando per le principali fiere europee internazionali di settore. E’ la parabola che ha avuto il progetto Wasp della Csp srl, acronimo di World’s advanced saving project. «Come dice il nome, siamo un Centro sviluppo progetti. All’inizio facevo tutto con un collaboratore e con la segretaria, poi ho chiesto a un gruppo di ragazzi di unirsi al progetto dandoci un obiettivo volutamente utopico, irrealizzabile e provocatorio come dice il nome stesso della società: salvare il mondo. Però è significativo dell’atteggiamento mentale che ci guida: vogliamo fare innovazione, non profitto. Sviluppo da sempre idee e vivo di autoproduzione. Ho iniziato a 18 anni, oggi ne ho 55. Per circa trent’anni ho fatto cose che andavano bene un anno, male un altro. Forse per questo la crisi non mi spaventa, anzi, paradossalmente sto avendo successo grazie anche a un nuovo modo di produrre, o per meglio dire autoprodurre. La conoscenza è disponibile online gratuitamente: noi facciamo ricerca e la stampante 3D dà forma alle informazioni che viaggiano in rete. Fondamentalmente siamo degli smanettoni che possono fare ricerca reale avanzata su vari settori e materiali». E’ questa la visione di Massimo Moretti, numero uno di Wasp, progetto della Csp srl nato nel 2012 e ormai sinonimo di ricerca avanzata.
Come riesce una piccola impresa fare ricerca avanzata?
«Bisogna passare dalla ricerca e sviluppo alla scoperta e sviluppo. La ricerca deve passare all’artigiano e alla piccola azienda se vuole dare frutto. Per questo può nascere un polo di sviluppo partendo dalle pmi. Purtroppo il sistema economico e bancario mette in condizione l’artigiano di non poter fare e non poter pensare a causa di investimenti pesanti: spesso gli artigiani sono diventati contoterzisti. L’artigiano è un artista: fa quello che sa fare bene e che gli piace. Personalmente ho mantenuto sempre la libertà di cambiare strada quando volevo. Ho iniziato con le livelle laser: per due anni pensavo di aver raggiunto il progetto della mia vita. Guadagnavo molto bene con un progetto fatto in una cantina, ma dopo due anni arrivarono i cinesi con un prodotto di qualità inferiore, ma a un quinto del prezzo. Da allora ho sempre reinvestito quello che ho guadagnato in progetti che a volte funzionavano e altre no».
Quali sono i progetti più avanzati a cui state lavorando?
«Stiamo facendo ricerca su diversi materiali: dall’argilla ai biomateriali. Se riusciamo a estrudere un materiale che ha caratteristiche tali da essere accettato nel corpo, può avere applicazioni veramente rivoluzionarie nel mondo della medicina. A questo proposito stiamo collaborando con l’ospedale Rizzoli di Bologna su un paio di fronti. Il primo è una collaborazione per cui loro studiano i materiali impiantabili e noi degli estrusori adatti a quei materiali. L’altra è quella nel campo delle applicazioni per stampare delle protesi a basso costo e alta precisione. Queste macchine costano poco, quindi vengono abbattuti i costi di produzione delle protesi stesse, rendendo così i servizi più accessibili: la macchina dà la forma con un materiale plastico che poi viene ricoperto di carbonio che dà la tenuta strutturale. E solo perché non si riesce ancora a stampare in carbonio, ma non è una prospettiva lontana: si stanno già facendo delle resine con dei nanotubi di carbonio».
Collaborate con aziende locali?
«E’ talmente rapida l’evoluzione che non abbiamo tempo di cercare delle collaborazioni. Normalmente chi è interessato cerca noi: una volta c’è una realtà che viene dall’America, un’altra volta da un’altra parte del mondo. In generale, le aziende locali dovrebbero stare più attente alle tecnologie e dovrebbero proporsi per fare cose assieme».
Quanto manca alla casa stampata in 3D?
«Diciamo che ci avviciniamo. Quest’anno abbiamo sbagliato tutto: abbiamo dedicato troppo tempo alla produzione e ora tutti i soldi che abbiamo guadagnato ce li portano via le tasse e quindi abbiamo meno risorse da investire in ricerca. Caleremo, per concentrarci sulla ricerca e sviluppo. Ci sono molti studenti che ci cercano incuriositi e a cui diamo la possibilità di seguire un progetto: hai un’idea, sviluppala. Nessuno può dire di non essere riuscito a causa della scuola, dello Stato e di mille altri motivi».
Da dove vengono?
«Da Milano, Massa Carrara, Faenza e da altre parti d’Italia. Abbiamo affittato un appartamento appositamente per dare loro un alloggio. Quella è la direzione che vorremmo intraprendere: affittare più appartamenti e aprire il laboratorio a tutto il mondo. Chi vuole venire a fare ricerca può venire e noi offriamo vitto e alloggio».
Qualcuno vi aiuta a livello locale?
«Per ora no. Per la prima volta in questo periodo stiamo allacciando contatti con un’azienda vicina, ma sono processi complessi: la parte contrattualistica tra imprese è difficile da comprendere per chi ha la nostra mentalità».
Cosa intende?
«Noi lavoriamo con coperture creative commons, senza brevetti: vuol dire che chiunque può riprodurre gratuitamente quello che facciamo in maniera perfettamente legale, ma non la può vendere. E tutto è disponibile in rete».
Un attimo: investite tutto in ricerca e non avete brevetti?
«Esatto, però non pensi che sia una scelta altruistica: è puramente egoistica. Brevettare ti fa star male come azienda e come persona in quanto entri in un’ottica di chiusura che fa perno sul terrore che questo o quello ti abbia copiato qualcosa. Se inizi a vivere così, cominci a spendere soldi in avvocati e brevetti e il risultato è che non fai più ricerca».
La maggior parte delle imprese però usa brevetti.
«Sono convinto che sia meglio l’opposto: tutti i giorni ci arriva un’idea nuova, facciamola e che gli altri ci corrano dietro a copiare... è un problema loro. Noi andiamo avanti con le idee che ci arrivano. In questo settore è fondamentale la condivisione della conoscenza».
Insomma serve un approccio mentale per lavorare al progetto Wasp.
«E’ quello che fa andare avanti l’azienda. Chi lavora qui sa che fa parte di un gruppo che non è qui solo per guadagnare, ma per condividere conoscenza e crescere assieme agli altri».
Come ha reagito alla fama improvvisa? Ha cambiato qualcosa?
«Una parte di me, quella più malata, è contenta. Mi sono detto: ‘Allora non sono un pazzo’. Dall’altro lato spaventa perché mi impegna in viaggi e appuntamenti che sottraggono tempo alla ricerca. Poi so, perché ci sono già passato, che la caduta fa male».

Christian Fossi
economia@settesere.it


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