Legalità, Giovanni Impastato alle Maioliche: "Non ci distraiamo, la mafia c'è anche in Romagna"

«La mafia è una montagna di merda». E' questo il grido, ancora attuale, che Peppino Impastato gridava nell'etere dalle frequenze di Radio Aut nella sua Cinisi, vicino a Palermo. Ed è per questo motivo che il 9 maggio 1978, lo stesso giorno in cui morì Aldo Moro, venne assassinato. Nel primo anniversario della sua morte fu organizzata la prima manifestazione nazionale contro la mafia della storia d'Italia: parteciparono 2.000 persone provenienti da tutto il paese.
Peppino Impastato è un eroe italiano, ma non è stato considerato sempre così. «Preparava un atto terroristico e l'attentatore ne è rimasto ucciso», spiegarono forze dell'ordine, magistratura e quella stampa locale di cui faceva parte, ma da cui era fortemente diverso.
La palese matrice mafiosa del delitto viene individuata solo nel 1984 grazie all'attività della madre e del fratello Giovanni che sarà a Faenza sabato 17 maggio per portare la sua testimonianza nella lotta contro la mafia in un incontro in mattinata al centro commerciale Le Maioliche.
Il 9 maggio scorso è stato il 36° anniversario della morte di suo fratello. Qual è la sua eredità?
«E' un'eredità pesante e importante con un messaggio fortissimo di impegno civile e di rottura con un sistema considerato inscalfibile. Ha lasciato un patrimonio culturale fatto di salvaguardia territorio e delle sue bellezze, di battaglie civili: ricordo l'importante impegno assieme ai contadini di Punta Raisi che lottavano contro gli esproprie, le lotte studentesche e quelle per organizzare disoccupati e sfruttati. Sono aspetti ancora attuali, ma pochissimi hanno raccolto questa eredità. Nessuno organizza più i disoccupati, i precari e il territorio è spesso alla deriva».
Quali sono i suoi ricordi più cari di Peppino?
«Quelli più belli non sono quelli del Peppino impegnato, anche se ho vissuto con lui dei bei momenti. Sono quelli di quando era scanzonato, dei carnevali improvvisati quando si improvvisava mangiafuoco per i bambini e diventava molto tenero. Poi il suo rapporto con la natura e con l'ambiente, quando andavamo a pescare e poi mangiavamo quanto preso».
Quanto coraggio ci vuole per portare avanti una battaglia come che avete fatto lei e sua madre per far riconoscere la matrice mafiosa e quindi l'omicidio?
«Ci sono voluti coraggio e tenacia: è stato il nostro modo di raccogliere subito la sua eredità di coraggio e spregiudicatezza. Chiamava tutti con nomi e cognomi nelle sue battaglie fatte alla luce del sole. Oggi è difficile da trovare tutto quel coraggio in tanti di noi. Ma non voglio generalizzare: non è giusto. Ci sono molte persone coraggiose come imprenditori che hanno denunciato i tentativi di estorsioni, famigliari che hanno denunciato gli assassini, giornalisti in prima fila, ma nella società c'è un pensiero dominante fatto di compromesso e rassegnazione con l'idea non si può cambiare quanto accade e che favorisce il proliferare delle attività mafiose e criminali».
Lei ha dedicato la vita alla lotta contro la mafia. Sta cambiando qualcosa nelle coscienze?
«Sarebbe ingeneroso dire che tutto è rimasto come prima. C'è più coscienza, ma non è ancora maggioranza».
Dici mafia, camorra, n'drangheta, sacra corona unita e pensi al Sud. Il Nord però non sta meglio.
«La cultura mafiosa è radicato in tutto il Paese: ad abbracciare questa cultura non sono solo i criminali, è un problema sociale e culturale. Oggi c'è più mafia in Lombardia che in Sicilia e c'è anche un sistema molto più omertoso che al Sud. Sono i danni della cultura leghista che ha stampo fascita e ha bloccato la crescita umana e culturale insieme a quella berlusconiana. Al Nord c'è un proliferare di metodi criminali molto forte. Bisogna reagire».
Com'è cambiata la Sicilia da quel tragico 9 maggio 1978?
«Sono nate le cooperative di Libera Terra che portano un sano progetto economico su cui si basa il riscatto sociale, sono cambiate le leggi punitive e c'è la confisca dei beni mafiosi. Ci sono associazioni antimafia e antiracket. Ma anche la mafia si è evoluta: oggi si parla di borghesia mafiosa, non è più appariscente. Non ci sono più i Riina, Provenzano, ecc., ma professionisti come avvocati, medici, banchieri, commercianti, imprenditori. E molti non li riconoscono più».
E' più o meno pericolosa?
«Sicuramente riesce a penetrare molto di più nella società e non va allo scontro con lo Stato, ma ne è parte integrante. E' più raffinata e se oggi mi chiedono chi sia il 'capo bastone' del mio paese non saprei rispondere con precisione».
Cosa dirà ai giovani che incontrerà a Faenza?
«Racconterò la storia di Peppino, poi allargheremo il discorso. Dirò di essere sempre attenti e non rassegnati, di studiare, di fare analisi e ricerca e di essere positivi. Il mio appello è semplice: 'Non guardate solo partite di calcio, Grande fratello, Amici e altre cose simili. Fate dei social network uso buono, non negativo, ma soprattutto riscoprite la socialità umana, dobbiamo tutti uscire di più: frequentiamo qualche biblioteca e museo in più, è un modo per crescere. La lettura rende più coscienziosi e liberi'». (Christian Fossi)