Nevio Casadio parla del suo doc sulle foibe
Federico Savini
«Al di là dell’ideologia, in un dramma come quello delle Foibe sono stati gli ultimi rimetterci, le fasce più deboli della popolazione. Ho cercato di raccontare questo, è quello che cerco sempre di fare». Lo ha fatto raccontando le pagine più dolorose della guerra ma anche l’arte, da Fellini ai cantautori, dalle morti sul lavoro al giornalismo su carta, dalle grandi personalità alle storie della gente comune. Ci sono tanti fili che si annodano nella carriera di Nevio Casadio, giornalista, scrittore e documentarista che in occasione del Giorno del Ricordo tornerà nella sua Romagna per le proiezioni del suo documentario Italiani per scelta – 7 storie istriane, in programma venerdì 10 alle 17 a Ravenna, a palazzo Rasponi, e sabato 11 alle 10 nella sala consiliare del Municipio di Faenza. Il barbianese Casadio ha lavorato a lungo con Sergio Zavoli, prima su carta e poi soprattutto come documentarista (ha vinto tre volte il premio Ilaria Alpi) e corrispondente tv, al fianco di Enzo Biagi e su praticamente tutti i canali Rai, ma non solo. «Il documentario sull’Istria è del 2012 – ricorda Casadio -. Venne trasmesso su RaiTre per il Giorno del Ricordo. È un viaggio fra chi restò in Istria, dov’era nato italiano, e chi se ne andò per restare italiano».
Scelte diverse motivate da un dramma comune.
«Addentrarsi in quel periodo attraverso i ricordi di chi c’era è stato emozionante. Sono andato alla ricerca delle motivazioni che hanno indotto alcuni a rimanere e altri passare ‘dall’altra parte’, che poi era l’Italia. C’è stata una diaspora, questo documentario mi ha portato da Alghero-Fertilia alla comunità del villaggio Dalmata di Roma, e poi a Trieste, Fiume e Pola. Mi interessava raccontare prima di tutto le vittime di quella situazione».
La tua ultima produzione è un documentario internazionale dedicato al direttore d’orchestra Yuri Ahronovitch. Com’è nato?
«Il 27 dicembre del 2014 ho ricevuto una mail, da Gerusalemme, dalla moglie di Ahronovitch, che su Rai International aveva visto il mio documentario Viva Fellini e mi chiedeva di lavorare a un film su suo marito, grande musicista del Novecento con una vita travagliata. Abbiamo girato in grandi teatri: dal Regio di Torino alla Scala, dal San Carlo di Napoli fino a Gerusalemme e Tel Aviv, poi anche in Russia e in una biblioteca svizzera. Il film avrà una versione italiana, una inglese e una in ebraico».
Passando dalla carta al video hai precorso i tempi. Come hai visto cambiare il mestiere?
«Cominciai con Zavoli al Mattino di Napoli, poi l’ho seguito in Rai, facendo anche inchieste con Biagi e tante altre cose. Avevo una base giornalistica di partenza. Oggi c’è molto spazio per il documentario e tanti giovani promettenti. Diciamo che l’attuale cultura dell’immagine porta tanti colleghi a personalizzare molto il lavoro, mentre io ho sempre cercato di dare spazio alle storie, non a me stesso. E’ un modo diverso di lavorare ma non è necessariamente un male, non generalizzo. Preferisco essere curioso e aperto».
Hai lavorato molto in Romagna, tornerai a farlo?
«Dipenderà da progetti e commissioni, ma l’ho sempre fatto con piacere. Il lavoro mi ha permesso di conoscere meglio la mia terra, ad esempio al tempo del documentario sui Giusti di Cotignola sapevo poco di quella vicenda. E’ una storia così importante che il museo dell’Arte Ebraica Italiana di Gerusalemme se ne è interessato. A Cotignola a salvare gli ebrei non furono iniziative slegate dei singoli, ma l’intero paese. Praticamente una cosa unica».