Roy Paci presenta lo spettacolo teatrale «Carapace» al Socjale di Piangipane

Romagna | 29 Marzo 2019 Cultura
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Federico Savini
«Il “Carapace” è la corazza di animali come il granchio e la tartaruga, la metafora di una protezione che ci costruiamo durante gli anni della formazione. Ce la forgiamo da piccoli, ci serve per decifrare il mondo e capire cosa dobbiamo far rimbalzare sulla corazza. La mia terra, la Sicilia, è piena di cose bellissime e bruttissime, quindi per la mia vita avere una corazza è stato importantissimo». Esordisce come attore e autore teatrale con qualcosa che conosce bene: la sua vita, ma anche la sua formazione e persino la sua morte. Roy Paci, il trombettista più eclettico d’Italia, tornerà in Romagna venerdì 29 marzo, per presentare al teatro Socjale di Piangipane (alle 21.30) il suo spettacolo teatrale Carapace, in anteprima nazionale. «Tecnicamente ho anche già fatto l’attore – racconta Roy -, e tra l’altro insieme a calibri come Francesco Pannofino e Antonio Catania ne I Cavalieri di Aristofane, a Siracusa, ma era una cosa diversa, non avevo addosso la piena responsabilità dello spettacolo. Non ti nascondo che un po’ me la faccio sotto…».
Eclettico lo sei sempre stato. Certo però che stavolta sei musicista, attore e autore…
«Co-autore, insieme a Pablo Solari, un drammaturgo giovane ma bravissimo e già di enorme esperienza. Mi ha aiutato a portare in scena la storia della mia formazione musicale, e sul palco saranno con me i ragazzi del Corleone ensemble. Cominciai a suonare a 9 anni nella banda del paese e il primo concerto fu a un funerale. Ne ho approfittato per programmare in scena anche il mio, di funerale! Sarà meraviglioso, una grande festa di parole e musica fra le tappe della mia vita».
Suonare a un funerale è un «contesto vero», una cosa molto folk, che i musicisti di domani non conosceranno. Cosa rischiano di perdere senza questo tipo di esperienze?
«Quello che penso è che l’esperienza del suonare in banda sia anche più formativa del Conservatorio. Lì si insegnano le nozioni, la lettura della musica e la teoria di base. In banda, invece, si impara a stonare in modo liberatorio. La banda ti sbatte davanti a un pubblico senza tanti complimenti e senza la protezione. Suonare alle sagre, alla festa del Patrono, ai funerali e alla Settimana Santa è formativo come poche altre cose. Ho poi realizzato, 18 anni fa, un disco col progetto Banda Ionica che si chiamava “Passione” ed è il primo album interamente dedicato al repertorio della marce funebri del sud Italia. Fece clamore in ambito world, anche Ennio Morricone ha sempre riconosciuto il valore dei compositori di quelle musiche».
Cose che oggi sembrano così remote e che pure hanno formato uno come te che riesce a muoversi in tutti gli ambiti della musica. Musica che però sembra oggi sempre più settorializzata, incanalata in generi “stagni”. Tu come riesci a fare cose così diverse tra loro?
«Ce la faccio non tanto per il pregresso della mia carriera ma proprio per l’esperienza che sono riuscito a mettere insieme. Al progetto Carapace ho dedicato tanto impegno, ho potuto farlo mettendo in pausa altri progetti, ma per chi comincia oggi è davvero difficile muoversi su più settori. Oggi, in Italia, i generi che funzionano davvero sono due: da una parte il mondo del rap e della trap, dominante al punto di aver fagocitato buona parte del mercato, mentre dall’altra parte c’è l’attuale evoluzione della musica “indie”, che poi è una forma di pop italiano molto buona anche per le radio. Negli anni ’90 la situazione era molto diversa, formazioni come Almamegretta, Casino Royale e Mau Mau proponevano un meticciato musicale di grande originalità, legandosi peraltro al rap italiano delle origini, quello delle posse. E’ naturale che tutto quanto evolva ma la perdita completa, o quasi, di questo genere di esperimenti, di quel tipo di tensione, secondo me è un impoverimento. E sì, i generi si sono molto settorializzati, chi cerca la contaminazione non ha vita facile».
A Faenza torni spesso?
«Più spesso che posso, ci ho abitato cinque anni e mi sento ancora faentino, soprattutto perché c’è un posto, l’osteria della Sghisa, a cui resto legato. Valter (Dal Pane, nda) è sempre nel mio cuore e ha lasciato in dote a tutti quel locale, che Gianma (Gian Maria Manuzzi, nda) porta avanti con lo stesso spirito. Abbiamo tanti progetti con Gianma».
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