IL CASTORO | Il destino dell’energia nucleare dopo la Cop 28

Romagna | 04 Aprile 2024 Blog Settesere
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Eleonora Fiorentini
Dal 30 novembre al 13 dicembre 2023, a Dubai, si è svolta la ventottesima conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici Cop 28. Gli stati presenti si sono impegnati, almeno formalmente, per una riduzione dei combustibili fossili. È stato inoltre siglato un patto tra una ventina di nazioni con l’obiettivo di triplicare l’utilizzo di energia nucleare entro il 2050.
Quale sarà il destino di questa energia in Italia? A tale proposito abbiamo intervistato due esperti del settore: l’ingegner Stefano Monti, presidente dell’associazione italiana nucleare e dell’European nuclear society, e Matteo Gherardi, professore associato del corso di Fisica del reattore e coordinatore del corso di studi di Ingegneria energetica presso l’ateneo bolognese. Entrambi ritengono che i due referendum sul nucleare in Italia siano stati fatti in periodi sbagliati, cioè subito dopo i due grandi disastri nucleari: quello del 1987, un anno dopo Chernobyl, e quello del 2011, pochi mesi dopo Fukushima.
«Penso che il momento successivo a uno shock -afferma Gherardi- non sia quello opportuno per rivolgere domande importanti ai cittadini e per ricevere una risposta oggettiva».
I due esperti concordano sul fatto che serve una campagna di informazione corretta, dettagliata e trasparente. «Quando le persone vengono informate su come realmente stanno le cose - aggiunge Monti - si abbatte lo stigma, si ha meno paura e ci si fida di più. La radiazione al perimetro di una centrale nucleare in normale funzionamento è irrisoria rispetto alla quantità di radiazioni a cui siamo sottoposti nella vita di tutti i giorni per via della radiazione di fondo naturale».
Monti delinea tre principali ragioni per le quali dovremmo includere l’energia nucleare nel nostro mix energetico: la decarbonizzazione dell’intero settore energetico, la sicurezza dell’approvvigionamento energetico, affrancandoci da sorgenti energetiche fossili, che ci espongono a logiche geopolitiche di dipendenza dall’estero e la diminuzione e stabilità dei prezzi dell’energia, che devono essere sostenibili sia per le aziende energivore che per i cittadini.
Per abbandonare i combustibili fossili, le energie rinnovabili non sembrano sufficienti: «Un loro utilizzo esclusivo non soddisfa il fabbisogno energetico complessivo del paese e infatti, nonostante i forti incentivi per svariate decine di anni, le rinnovabili intermittenti quale sole e vento coprono solo pochi percento del fabbisogno energetico complessivo dell’Italia. In aggiunta c’è il problema della loro intermittenza, che obbliga a continuare a bruciare combustibili fossili quando il vento non spira o il sole non splende.  Per Gherardi «è importante che la maggior parte dell’energia prodotta sia rinnovabile e comunque bisogna andare in questa direzione». Ci sono già studi - ricorda - che sosterrebbero l’utilizzo per il 100% delle rinnovabili, ma «in questo momento comporterebbe un costo troppo alto». Si utilizzerebbe infatti un sistema di accumulo, per stoccare l’energia prodotta da fonti rinnovabili, ma si aggiungerebbe il problema della trasmissione, ovvero si dovrebbero aumentare le infrastrutture per trasportare questa energia, che quindi costerebbe di più.
Sia Monti che Gherardi sostengono che l’opinione pubblica sul nucleare sia cambiata. Il professore cita, infatti, un sondaggio di Swg risalente a ottobre 2023: «Il 25% degli italiani è contrario al nucleare a priori, il 20% è invece favorevole. La restante percentuale, maggioritaria, è aperta a valutare la possibilità di fruire di nuove centrali, soprattutto se saranno costruite a una consistente distanza dalle abitazioni e se saranno in grado di far ottenere un risparmio in bolletta. In tal caso i favorevoli sarebbero il 68% del campione».
In particolare, i giovani sembrano mostrare un approccio diverso, meno ideologico e più fiducioso nelle tecnologie avanzate. I nuovi reattori, infatti, resistono anche a situazioni estreme: sono stati sviluppati dei sistemi di sicurezza passivi, basati su fenomeni naturali come la circolazione naturale o la condensazione. «Anche il posizionamento in Italia non sarebbe quindi un problema e di certo non è il problema sismico quello di cui bisogna preoccuparsi», sostiene Gherardi, citando un’intervista al professor Carlo Doglioni, ordinario di geologia e presidente dell’Istituto di geofisica e vulcanologia. «Basta fare uno studio approfondito – prosegue -, in modo da valutare le zone in cui è meglio costruire».
I costi, le scorie e le tempistiche in cui si costruisce una centrale nucleare sono temi che fanno discutere: una centrale, ci spiegano gli esperti, viene ultimata e avviata a pieno regime in circa un decennio. Il costo del kWh nucleare è competitivo con quello dei combustibili fossili. Per quanto riguarda invece lo smaltimento dei rifiuti radioattivi questi si distinguono in rifiuti a bassa, media o alta attività. I rifiuti di bassa e media attività vengono prodotti anche da applicazioni non energetiche, quali ad esempio la medicina nucleare e possono essere stoccati in maniera definitiva in strutture ingegneristiche già realizzate in decine di paesi. Va fra l’altro notato che la loro pericolosità diminuisce di pari passo con la loro radioattività, che decade nel tempo, mentre ad esempio la tossicità di rifiuti chimici è permanente. I rifiuti radioattivi ad alta attività e lunga vita provengono dal combustibile nucleare esausto. In un cosiddetto ciclo del combustibile aperto le scorie trattate vengono stoccate in modo permanente in un deposito geologico; nel caso di ciclo del combustibile chiuso, viene separata la parte del combustibile esausto, che ancora possiede un enorme potenziale energetico, per poi essere riutilizzata in un reattore nucleare, dando vita a una sorta di economia circolare.
Gherardi auspica infine la costruzione di un deposito nazionale per i rifiuti radioattivi, che servirebbe anche per quelli prodotti in campo medico. «Senza di esso, i rifiuti radioattivi rimarranno stoccati nei depositi temporanei, distribuiti in molte Regioni» spiega il professore, che aggiunge: Si tratta di depositi progettati per una durata di circa 50 anni e con criteri di sicurezza differenti da quelli di un deposito definitivo. Molti, realizzati da tempo, sono ormai saturi e richiedono periodici e costosi interventi di manutenzione».

 
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