Ravenna, «Le lunghe ombre fredde» è il nuovo romanzo di Eraldo Baldini

Romagna | 07 Aprile 2024 Cultura
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Federico Savini
«Fra le tante conseguenze nefaste di una tragedia come la guerra, ci sono le “tossine” che restano nei territori del conflitto, condizionano i pensieri e le emozioni, continuando a gravare in tutti i sensi sulle persone, anche per molti anni». Racconta una vicenda privatissima ma in definitiva parla anche di questo Le lunghe ombre fredde, il nuovo romanzo di Eraldo Baldini in uscita per Rizzoli il prossimo 9 aprile. E mentre la produzione saggistica dell’antrologo e scrittore originario di San Pancrazio non conosce tregua, con una media che ormai si attesta sul paio di volumi l’anno, quella romanzesca era ferma da cinque anni, da quel La palude dei fuochi erranti che fu l’approdo di Baldini su Rizzoli, dopo anni passati a pubblicare su Einaudi romanzi ormai classici sul filone del «gotico rurale» ma anche i più recenti affondi nel romanzo storico tour court, come Nevicava sangue (2106) e Stirpe selvaggia (2016). Le lunghe ombre fredde è un libro che Baldini non etichetta: «non un giallo, anche se sulla vicenda grava un angoscioso mistero, non un “gotico rurale”, anche se è ambientato in una zona rurale e selvatica, e non un noir, anche se la vicenda nasce e fa costante riferimento alla pagina più nera della storia».
Il nuovo romanzo ha avuto una gestazione complessa?
«Un romanzo è sempre complesso - risponde Eraldo Baldini -. L’idea può anche nascere in modo fulmineo, ma per svilupparla serve lavoro, sui personaggi, l’ambientazione e lo stile narrativo. In particolare, per questo libro non volevo che il fluire della trama soverchiasse il resto, quindi ho lavorato molto sullo stile e sui dettagli, per scriverlo qualitativamente al meglio. Il che implica che ci si possa fermare anche un giorno intero su una singola frase. E poi ho sperimentato anche un’alternanza narrativa, con la storia raccontata in parte in terza persone e in parte dal punto di vista di uno dei figli dei protagonisti».
La dimensione mistery e quella drammatica si compenetrano, quindi?
«Ci sono entrambe. Racconto la storia di due ragazzi che si conoscono nel campo di concentramento di Mauthausen. Lui è un romagnolo che è stato imprigionato dai tedeschi nei Balcani, dopo l’8 Settembre, che si ritrova a Mauthausen dopo essere stato evacuato da un campo più ad est per via dell’avanzata dell’Armata Rossa. Qui conosce una ragazza tedesca, in arrivo da non si sa dove, se ne innamora e subito diventa chiaro che, una volta liberi, i due torneranno in Italia, perché lei non vuol saperne della Germanica. Vanno ad abitare nella zona più paludosa del ravennate e qui la loro vita, partita sono auspici straordinari, diventa normalissima, fatta di piccole cose e desiderio di restare ai margini della società, da cui la scelta delle paludi. Fanno cinque figli, poi, per una serie di sfortunate circostanze, lei si trova costretta a dover proteggere un segreto che custodiva da molto tempo e che crea parecchi problemi a tutta la famiglia…».
Il tema, quindi, più che i campi di concentramento diventa quello della difficoltà a re-inserirsi nella società dopo il conflitto?
«Con l’aggravante che qui ci sono ragioni per doversi nascondere. Possiamo dire che il romanzo parla del difficile rapporto tra l’identità privata di una persona, il suo vissuto, e la grande Storia con la S maiuscola, che fa il suo corso e a volte confligge con le storie personali».
Tutti i suoi romanzi, anche quelli più recenti, almeno un po’ continuano ad avere un legame con la Romagna. In questo caso?
«Ho scelto di non indicare precisamente il luogo in cui risiedono i protagonisti ma è chiaro che le paludi da cui sono circondati sono metaforiche, sono modi per allontanarsi dalla società. Poi, con il tempo e i figli sarà inevitabile mostrarsi sempre più spesso. Bisogna considerare che la protagonista del romanzo è tedesca, un dettaglio non certo neutro della Romagna post-bellica…».
I libri precedenti erano ambientati più indietro nel tempo, quindi invece si parla del cuore del Novecento. Immagino non sia un caso…
«No, le ferite ancora aperte della guerra giocano un ruolo chiave nella storia, che si inserisce all’interno di una vicenda ‘psico-morale’ tutta italiana sull’elaborazione del conflitto. Le divisioni maturate in vent’anni di fascismo non sono ancora del tutto guarite e il clima che si respira nel romanzo è quello di una comunità che si ricompatta con la tentazione di giudicare ed emarginare un nemico».
Sono frizioni ancora aperte oggi?
«Credo di poter dire che le questioni puramente storiche siano state rimarginate, ma non quelle ideologiche, che trovano continuamente nuovi spunti per riemergere. Il mio romanzo di questo parla fino a un certo punto, concentrandosi sull’aspetto umano di un territorio che viene raccontato come un luogo “in cui ci sono più cippi di partigiani morti che case”. Nel Dopoguerra a far ribollire le coscienze non erano tanto le idee ma gente uccisa, memorie ancora fresche, cose concrete. Questa è una cosa che io posso testimoniare, essendo nato nel ’52. Fino alla fine degli anni ’60, a casa mia la memoria della guerra era una costante, potevi avvertirne la presenza. Non solo nei discorsi, ma anche negli oggetti di casa, come gli elmetti trasformati in scodelle o gli attrezzi dell’orto, che erano tutti marcati Royal Canadian Army! I miei genitori erano adolescenti durante la guerra, non l’hanno combattuta ma l’hanno vissuta, mia madre aveva fratelli partigiani e tutti vivevano ancora immersi in quell’emotività ancora venti o trent’anni dopo».

Eraldo Baldini presenterà il libro il 19 aprile al museo della Vita Contadina di San Pancrazio, poi alla bottega Bertaccini di Faenza sabato 11 maggio, il 12 a palazzo Albici a Forlì e a Ravenna il 16 maggio per ScrittuRa Festival, per non citare che le prime.
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