Intervista a Cristiano Cavina che parla del suo nuovo libro «Fratelli nella notte»

Romagna | 04 Giugno 2017 Cultura
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Elena Nencini
E’ il giorno del suo compleanno quando avviene questa intervista ma Cristiano Cavina sembra quasi essersene dimenticato e risponde un po’ imbarazzato agli auguri che gli fa tutta la redazione di Setteserequi. Sono 43 anni di grandi passioni: ai primi posti sicuramente la letteratura, il calcio e Casola Valsenio, ma non saprei dire se l’ordine sia questo perchè in tutti i suoi libri questi sono i temi di cui ha parlato di più. Narratore, più che che scrittore come ama definirsi ha ascoltato al bar, dagli anziani, molte delle storie che racconta oggi, un racconto tra memoria, ironia, tenerezza e Storia con la s maiuscola, non solo quella del suo paese.
Di Storia con la S maiuscola Cavina parla nel suo ultimo libro Fratelli di notte, uscito a maggio per Feltrinelli, come scrive infatti lo scrittore casolano: «”È andata a chiamare vostro fratello,” disse il partigiano ferito. Tarzan smise di respirare, sbattendo le palpebre sporche di terra. Nonostante il freddo stava sudando, e gli bruciavano gli occhi. In verità, non sapeva se suo fratello sarebbe venuto». E’ la storia di due fratelli, Mario e Gianì, raccontata con un tono epico, uno stile potente e asciutto, una storia commovente ed emozionante proprio perché priva di qualsiasi idealizzazione, di qualsiasi nostalgia. Soltanto due fratelli davanti al discrimine fra vivere e morire, senza mostri né eroi; soltanto un ragazzo spaventato che cerca di sopravvivere e un uomo costretto a scegliere se rischiare la vita per salvarlo.
Cavina, come molte delle tue storie anche questa ha un fondo autobiografico?
«Non solo un fondo, ma un primo piano. E’ la storia di mio nonno e di suo fratello che per me ha assunto un tono particolare, forse proprio perché non c’ero».
Da chi l’ha ascoltata per la prima volta questa storia?
«In realtà ho messo insieme i pezzi dopo, i vari racconti che avevo ascoltato in casa. Ma soltanto quando ho letto un libro sui partigiani ho capito che si parlava di Mario, il fratello del nonno. In casa mia non si poteva parlare di partigiani e comunisti».
Il nonno e suo fratello li ha conosciuti direttamente?
«Si, si, con il nonno ci ho vissuto trent’anni, mentre lo zio Mario è morto che avevo 15 anni. Mio nonno è molto presente nei miei libri, ma qui in una versione molto particolare. Sapevo che mio nonno aveva fatta la guerra in Grecia, che aveva conservato la pallottola che lo aveva colpito. Così come sapevo che Mario, a 19 anni, era stato ferito. Ma soltanto da poco ho scoperto che era avvenuto a Cà Malanca. Mamma non me l’aveva spiegata bene».
Cosa si prova a rendere indelebili questi racconti familiari e a farli diventare Storia con la s maiuscola?
«Ho cercato di dare un’etica della quotidianeità ai miei racconti e alle persone di cui parlo. Mio nonno era il contrario di un eroe. Ha fallito in quasi tutto però ha salvato suo fratello che era solo un ragazzino. Ci sono molte cose in Italia a cui non si dà importanza. Quando leggi di questi giovani che combattevano in guerra e ti rendi conto che avevano solo 18 anni, che erano ragazzi di quarta liceo. Avevo voglia di raccontare proprio questo».
Come mai ha scelto di pubblicare per Feltrinelli invece che con la casa editrice che la segue fin dai primi successi, Marcos y Marcos?
«La storia era perfetta per Feltrinelli, è un romanzo breve più adatto per   la casa editrice milanese. Io continuerò a pubblicare per Marcos, ma come ho fatto con Lonely Planet, con Laterza, se capitano altri progetti interessanti non mi dispiace».
Chi le ha raccontato le prime storie di partigiani?
«Le ho ascoltate di straforo, sono nato in una famiglia molto cattolica, mia nonna era fascista, di certe cose non si poteva parlare. Lo zio Mario, si era guadagnato il soprannome di Tarzan, lui in guerra si occupava dei muli, delle bestie. Era alto 1.50 m, ma alla fine si trovò costretto a combattere a Cà di Malanca. Quando vennero circondati il comandante Bob della Brigata Garibaldi mandò avanti i suoi ragazzi, che avevano solo 18 anni, gridando ”Garibaldini all’attacco”. Queste cose non le insegnano a scuola: ma te li immagini questi ragazzini armati di randelli davanti all’esercito tedesco?».
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