IL CASTORO | «Non dobbiamo dimenticare tutti i Patrick Zaki del mondo», intervista al giornalista Valerio Lo Muzio

Romagna | 19 Marzo 2021 Blog Settesere
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Anna Balducci

Nella sala conferenze del Comune di Faenza, giovedì 25 febbraio, è arrivato Patrick Zaki. A portarcelo è stato il giornalista Valerio Lo Muzio, perché, di fatto, Zaki da più di un anno non può andare da nessuna parte. Arrestato all’aeroporto de Il Cairo la notte del 7 febbraio 2020, è stato torturato e incarcerato dai servizi segreti egiziani, con l’accusa pretestuosa di aver attentato alla sicurezza del paese. Patrick, un ragazzo come tanti, da Bologna, dove si era iscritto al Master europeo Gemma in Studi di genere e delle donne, era tornato in Egitto per fare visita alla famiglia. Si batteva per i diritti umani nel suo paese, in cui vige una dittatura. Tutti i liceali di Faenza hanno abbandonato le lezioni ordinarie per seguire un’ora di vera e propria educazione civica. Le voci dell’incontro sono state quelle di Valerio Lo Muzio, autore del documentario Waiting for Patrick e di una compagna di studi di Zaki, Sofia Selighini. È lei la prima dei tanti amici che, nel video, lo ricordano come un ragazzo curioso, tenace, spiritoso, alla mano. Dopo l’incontro, abbiamo intervistato il giornalista che, con il suo lavoro, si è preso cura di questa vicenda.

Tu vivi a Bologna. Come ha reagito la città all'arresto di Patrick?

«A Bologna l’arresto di Zaki ha toccato immediatamente tutti. Pochi giorni dopo, in Piazza Maggiore, c'è stata una prima manifestazione organizzata dai suoi amici ed erano molto pochi. Ma già nel giro di una decina di giorni un grandissimo corteo ha coinvolto tutta la città: è stato uno dei più partecipati a Bologna negli ultimi dieci anni. Come ha detto Merola, il sindaco di Bologna, gli studenti dell’università sono bolognesi a tutti gli effetti. I cittadini hanno preso a cuore questo fatto sia perché è molto drammatico, sia perché Patrick ha frequentato i luoghi di Bologna, ama questa città».

Perché hai intervistato gli amici di Zaki e nessuno della sua famiglia?

«È una bella domanda. Io, essendo in Italia, ho voluto raccontare la Bologna di Patrick. Volevo mostrare come la vita, qui, nel frattempo continui a scorrere tranquillamente. Alcuni dei suoi amici si sono laureati, altri stanno per farlo, molti sono andati in Erasmus e sono già tornati, tutti hanno fatto esperienze diverse. Patrick, invece, da più di un anno è fermo, immobile. Per quanto riguarda la famiglia, loro vivono in Egitto. Andare là, oggi, per raccontare questa storia è molto difficile e rischioso. Avrei avuto la possibilità di intervistare la sorella, ma, in un regime come quello egiziano, l'avrei messa in pericolo. Se la famiglia avesse avuto dei documenti, delle notizie importanti da rendere pubbliche, allora avrei tentato di interpellarli. Ma la sorella mi avrebbe detto, probabilmente, ciò che immaginiamo tutti: che Patrick le manca. In più, è una notizia di pochi giorni fa che il padre è all'ospedale, non sta bene, spera di vedere il figlio e sta soffrendo molto per la sua prigionia. Però tutto questo riguarda la sfera personale di Patrick e io non volevo raccontare dettagli della sua vita privata. Ciò che fa la differenza tra il bravo giornalista e lo sciacallo della corsa allo scoop è la sensibilità e la capacità di tutelare le persone con cui si ha a che fare».

Hai detto che tu, con il tuo documentario, hai voluto «umanizzare» Patrick.

«Patrick è prima di tutto una persona. Mi ci sono rivisto molto, abbiamo anche la stessa età, ventinove anni. Anch’io sono stato uno studente a Bologna. Facevamo le stesse cose, frequentavamo gli stessi luoghi. È un ragazzo semplicissimo, come tanti altri, un ragazzo con delle idee. Per questo va umanizzato. Si tende sempre a guardare le vicende politiche da lontano. E magari ad accusare Patrick di non essersi fatto i “fatti suoi”. Quali sarebbero i famosi “fatti nostri”? Tutto quello che succede nel mondo ci riguarda, perché ci viviamo. Patrick è una persona curiosa, studiava e sognava di migliorare il suo paese. Per cosa dobbiamo davvero impegnarci, nelle nostre vite, se non per migliorare il mondo?».

Cosa possiamo fare, nel nostro piccolo, per Patrick?

«Come ha detto Sofia stamattina, nessuno sa cosa possa davvero aiutarlo nel concreto. Ma poi lei ha aggiunto: “Non c’è un giorno in cui non penso a Patrick”. Proprio questo è importante, fare in modo che se ne parli e lo si percepisca non come un problema lontano, ma vicino a noi. Dai video al social bombing, agli articoli di giornale, fino al passaparola in famiglia o tra amici, tutto contribuisce a tenere accesi i riflettori su questa vicenda. Quando si resta per tanto tempo nel buio di una cella, isolati da tutto e tutti, si rischia di mettere in dubbio persino di esistere, di essere un uomo. Per Zaki, sapere di essere pensato è fondamentale. Mi chiedo se il nostro amore gli arrivi in qualche modo. Questo, naturalmente, non vale solo per lui, ma per tutti i Patrick del mondo».

Qual è il prossimo video che realizzerai?

«Il prossimo video che voglio girare - l’ho già immaginato più volte - è quello di Patrick che torna a Bologna, arriva in aeroporto e viene abbracciato dai suoi amici. Sento che anche per me sarà difficile trattenermi. Da giornalista, mi sono trovato più volte in situazioni drammatiche e sono sempre riuscito a rimanere emotivamente distaccato. Ma con Patrick non penso ci riuscirò. Andrò ad abbracciarlo anch’io, con la telecamera sottobraccio, anche se non lo conosco».

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