Sandro Bassi - E’ del 2016 questo «Il Lamone, un fiume tra storia e genti» (di Pietro Barberini e Osiride Guerrini, 164 pagg., con foto e tavole a colori, Sbc edizioni, Ravenna), ma cogliamo ora l’occasione per parlarne, anche perché nel frattempo l’argine del fiume che collega Faenza con Boncellino, Russi e Casalborsetti è diventato interamente ciclabile, o comunque percorribile grazie al periodico sfalcio manutentivo.
Il Lamone, citato da Dante e visionariamente descritto da Dino Campana, si dipana per 100 km dalle sorgenti presso la Colla di Casaglia fino alla costa ravennate; a Crespino è un torrente modesto, a Marradi si ingrossa per l’apporto di un notevole affluente, il Campigno, poi dà vita ad una delle valli romagnole più belle, più verdi, più ricche di natura e ancora prive di insediamenti industriali inquinanti o brutti capannoni.
Sul Lamone stanno paesi ancora a misura d’uomo e di paesaggio - San Martino in Gattara, San Cassiano, Brisighella - e la sua valle vede snodarsi un’antichissima arteria stradale, quella «via Faentina» di età romana diretta verso la Toscana ed una ferroviaria addirittura mitica, di fine ’800, tuttora funzionante e rinserrata fra gallerie, gole, boschi e dirupi.
Il Lamone è il tratto d’unione che congiunge una montagna ancora selvaggia ad una pianura ubertosa (come si diceva nei vecchi testi di geografia) e ad una costa un tempo poverissima, di pescatori ieri, di spiagge affollate oggi, preda di un turismo che è la dimostrazione di come i romagnoli sappiano valorizzare davvero tutto. Bene, quel corridoio naturale che si insinua da Faenza verso sud solcando i monti di confine con la Toscana ha sempre attratto viaggiatori, pellegrini, eserciti, mercanti… fra i primi va citato Leonardo, che ricorda l’attitudine delle argille di «val di Lamona» per la ceramica («… son tutte di terra da fare boccali…»), poi il povero Dino Campana che dalla natìa Marradi scese per la prima volta a Faenza in una torrida estate di fine ‘800 per iscriversi ai Salesiani e che vide così «la vecchia città, rossa di mura… sul fiume impaludato fra magre stagnazioni plumbee».
Forse il viaggiatore più legato al Lamone, anche se non il più famoso, resta quel Felice Giani che nel 1794 fece la sua risalita della valle a piedi, con una scanzonata compagnia di artisti, senz’altra meta che non il viaggio in sé e il desiderio di fissarne il ricordo negli schizzi e disegni che compongono il suo «Taccuino». Dopo le raffigurazioni della piazza di Faenza, del tempio di Giove Ammone (la Pieve Thò), degli arditi ponti di Fognano e Marradi, si spinse un poco oltre, fino alle fragorose cascate di Valbura, orride nel senso romantico del termine, che costituiscono l’ultima pagina del taccuino. Gli autori del libro, Barberini e Guerrini, ripercorrono un po’ tutto questo, sia pur con diverse chiavi di lettura perché prendono in esame storia, geografia, natura e cultura fino anche, nell’ultimo capitolo, ai piaceri della tavola.
Pregio peculiare del volume è la riproduzione di rare mappe antiche, soprattutto sei-settecentesche, dove si vede l’evoluzione del corso di un fiume ma soprattutto la storia di una lotta plurisecolare fra uomo e acque.