Ravenna, Foreign Fighters, parla il prof. Gozzi: "In carcere si fa proselitismo"
Elena Nencini
Continuano le espulsioni, da Ravenna, di foreign fighters, cioè coloro che, pur non appartenendo geograficamente ai paesi nei quali è nato il Califfato, decidono di affiliarsi allo Stato Islamico abbracciandone ideologie e metodi di combattimento a promessa di una vita migliore in uno stato che promette giustizia sociale e benessere. L’ultimo è un 28enne albanese che aveva combattuto in Iraq e Siria. Gustavo Gozzi, docente di storia delle dottrine politiche presso l’Alma Mater Studiorum di Ravenna approfondisce la situazione. Gozzi è il ‘padre’ degli studi in cooperazione internazionale a Ravenna, nonostante sia da poco in pensione non ha mai smesso di costruire e aggiungere tasselli al progetto di rendere i diritti umani e la cooperazione internazionale una specificità formativa e culturale tutta ravennate. Per Gozzi sull’argomento foreign fighters e Ravenna: «bisogna affrontare un discorso più ampio partendo dal presupposto che i modelli di integrazione non hanno funzionato. Un problema a livello europeo dove paesi come Francia e Inghilterra hanno puntato all’assimilazione e non all’integrazione, con modelli di emarginazione ed esclusione nelle banlieue. Questo è uno dei motivi per cui diversi attentati si sono verificati in questi paesi e non in Italia, dove ci sono luoghi come l’Emilia-Romagna, la Lombardia che hanno puntato, invece, su politiche multiculturali, sociali, legislative di integrazione e di qualità».
Come è la situazione a Ravenna?
«In Italia c’è un forte senso di tutela dei migranti, un atteggiamento di grande disponibilità anche per il diritto alla salute. A Ravenna vengono fatte politiche sociali importanti, c’è il festival delle culture. Ravenna è un caso avanzato di integrazione, come tutta l’Emilia Romagna. C’è uno scarto tra realtà nazionale e quelle regionali. Il problema è più generale rispetto all’Europa che ha trascurato l’Italia»
La concentrazione di 8 persone a Ravenna ha fatto ipotizzare che il luogo di proselitismo sia il carcere, che ne pensa?
«Non stupisce l’ipotesi che il carcere sia l’ambiente della radicalizzazione dove queste persone vengono indottrinate e si dia sfogo alla marginalità. Il rifiuto è il terreno per il proselitismo. Non è un caso solo di Ravenna, anche in Francia e in altri paesi è avvenuto cosi. Persone che si sono macchiate di piccoli reati e che trovano, nel gruppo, un’identità ideologica. Si tratta di persone arrivate in carcere perché già non erano riuscite a integrarsi».
Cosa si può fare secondo lei?
«Bisogna cambiare le politiche europee che ci hanno su quest’argomento abbandonati. Bisogna pensare all’integrazione dei migranti che arrivano in Italia e che producono il 9% del pil nazionale e infine pensare a autentiche politiche di sviluppo industriale tra Europa e Africa. Bisogna avere uno sguardo lungo e fermare la migrazione all’origine».