Mecnavi, 30 anni fa la tragedia al porto, morirono 13 lavoratori

Ravenna | 13 Marzo 2017 Cronaca
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Elena Nencini
Sono passati 30 anni dalla morte di quei 13 lavoratori nella nave gasiera Elisabetta Montanari al porto di Ravenna, a causa di condizioni inumane di lavoro e non in sicurezza, ma il dolore resta, resta nelle famiglie che persero figli giovanissimi, appena ventenni, resta nel rileggere le cronache di quella giornata che vide la città compatta nel dolore, nel corteo degli studenti, oltre 4.000, con gli striscioni «Mai più». Perché come sottolinea Costantino Ricci, della Cgil, «la sconfitta massima per un sindacalista è quando un uomo perde la vita sul lavoro».
A commemorare le 13 vittime della Mecnavi lunedì 13 alle ore 10 sarà deposta una corona in piazza del Popolo, con interventi del sindaco Michele de Pascale, il sindaco di Bertinoro Gabriele Antonio Fratto (da cui venivano 5 delle vittime) e Costantino Ricci, segretario generale Cgil Ravenna. Oltre alle commemorazioni e allo spettacolo del Teatro delle Albe (vedi box) si parlerà del caso Mecnavi mercoledì 15 in sala D’Attorre (ore 9-12.30) alla 4a Assemblea provinciale dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, aziendali, territoriali e di sito. Il sindaco De Pascale ha evidenziato come: «la città ha pagato un prezzo molto alto nell’ambito della sicurezza sul lavoro. Quella della Mecnavi rimane una ferita. I momenti celebrativi sono un monito e un dovere perché quanto accaduto non avvenga più».

L’INCIDENTE
Il 13 marzo 1987 nel cantiere Mecnavi, di proprietà dei fratelli Arienti, al porto di Ravenna tredici operai morirono soffocati dai gas tossici sprigionati durante un incendio nella stiva della nave gasiera Elisabetta Montanari. Un incidente che tocca particolarmente la città  che si considera «un territorio con una cultura  del lavoro alta» spiega Elsa Signorino, assessore alla Cultura.
In contemporanea sulla nave stanno lavorando due squadre che non sanno l’una dell’altra: nella stiva si usa la fiamma ossidrica per tagliare delle lamiere, mentre nei doppifondi i picchettini, gli operai addetti a questo tipo di pulizie, stanno lavorando nei cunicoli, stesi sulla schiena o sul ventre, in uno spazio che non va oltre gli 80-90 cm di altezza. Le scintille della fiamma ossidrica incendiano dell’olio combustibile che scatena gas tossici che asfissiarono gli operai, senza via di scampo. L’allarme scattò verso le 9, l’ultima salma fu estratta poco dopo le 14.
Mancava completamente un piano di sicurezza dell’intera nave: gli impianti elettrici, i ponteggi, le opere provvisionali, i parapetti, l’illuminazione e la segnaletica non erano a norma di legge.
Secondo la perizia depositata nel dicembre del 1988: «per nessuno degli operai rimasti intrappolati nella stiva dopo lo sviluppo dell’incendio vi era alcuna possibilità di fuga perché non erano state previste vie alternative d’uscita».

IL PROCESSO
Il processo cominciò tre anni dopo la strage: in primo grado i fratelli Enzo e Fabio Arienti, proprietari della Mecnavi, furono condannati a 7 anni e mezzo. Due anni dopo in appello le condanne passarono da 9 a 13, la Cassazione estromise i sindacati come parte civile e dispose un nuovo processo di secondo grado. Nel ‘94 gli Arienti furono condannati a 5 anni, pena diminuita a 4 dopo pochi mesi e a pene inferiori due dirigenti.

LE VITTIME
Tredici le vittime che morirono in quel terribile giorno, tre non ancora ventenni, otto non in regola, per alcuni era il primo giorno di lavoro, per uno era l’ultimo prima della pensione. Filippo Argnani, 40 anni, Marcello Cacciatore, 23, Alessandro Centioni, 21, Gianni Cortini, 19, Massimo Foschi, 26, Marco Gaudenti, 18, Domenico La Polla, 25, Mohamed Mosad 36, Vincenzo Padua, 60, che stava per andare in pensione, e si trovò lì per puro caso, chiamato all’ultimo momento in mancanza di personale, Onofrio Piegari, 29, Massimo Romeo, 24, Antonio Sansovini, 29, e infine Paolo Seconi, 24.   I responsabili del cantiere corsero a casa dei dipendenti per recuperarne i libretti di lavoro e tentare di metterli in regola.

L’OMELIA DI TONINI
Un’omelia speciale quella del vescovo di Ravenna, monsignor Tonini, davanti alle bare dei 13 uomini in duomo. Lancia parole di fuoco, parla di coscienza, responsabilità, diritti, dignità, umiliazione. Un vero e proprio «J’accuse» che contraddistingue l’uomo Tonini, vicino ai suoi cittadini. Il vescovo sottolinea infatti come l’ambiente di lavoro fosse malsano: «fossero andati i genitori a visitare quei cunicoli avrebbero detto: ‘no, figlio mio! Meglio povero, ma con noi!’. Avrebbero avvertito l’umiliazione spaventosa, la disumana umiliazione. Un ragazzo di 17-18 anni che è costretto a passare 10 ore in cunicoli dove, posso dirla la parola? Non vorrei scandalizzare, dove possono camminare i topi! Uomini e topi! ... E niente legittima, niente serve da scusa, niente diminuisce la responsabilità!». Parole che suonarono dure in chiesa contro il mondo del lavoro e la mancanza di sicurezza: «da Ravenna e dalla stiva di quella nave, nasce una denuncia: il Vostro Vescovo non fa nomi, non è contro questo o contro quello, ma la denuncia è che davvero l’umanità sta distruggendo senza saperlo i tesori della propria ricchezza di umanità... Chi poi nel mondo del lavoro più risente di questo processo sono proprio i giovani. Non per niente il maggior numero delle vittime di Ravenna sono giovani, condannati al ricatto».
E conclude «All’origine della tragedia di Ravenna ci sta proprio questo: la degradazione della coscienza. Bisogna pur dire che si sta perdendo il confine tra bene e male: il guadagno, il successo, la riuscita, la propria gratificazione prendono il posto di quell’attenzione alla coscienza che, anche nella nostra Romagna, gli stessi atei han conservato come tesoro prezioso da trasmettere ai propri figli: l’onestà».
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