Il folletto romagnolo potrebbe farsi vivo per Halloween, ma intanto ispira favole e canzoni

Ravenna | 29 Ottobre 2017 Cultura
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Federico Savini
Anche se ormai da anni si sa – o si dovrebbe sapere, per merito dei saggi di Eraldo Baldini e Giuseppe Bellosi – che la festa di Ognissanti rientra a pieno titolo fra i rituali romagnoli maggiormente intrisi di retaggi tradizionali, e anche se lo «spauracchio» romagnolo di stagione sarebbe la Piligrèna (già più volte approfondita su queste pagine), approfittiamo della ricorrenza di Halloween per soffermarci sul più noto tra gli esseri soprannaturali che popolano la fantasia – sempre che di sola fantasia si tratti… - dei romagnoli. Parliamo naturalmente del Mazapégul, che tanto per non smentire il carattere geograficamente assai mutevole del nostro dialetto in certe zone viene chiamato Mazapedar (in particolare nel faentino) e in altre Mazapigur (in particolare nel cesenate).
Il dispettoso folletto sarebbe quindi, alternativamente, un «ammazza-piccoli», un «ammazza-padre» (Anselmo Calvetti considera l’ipotesi che pedar stia per ‘pietre’ ma non la supporta) o un «ammazza-pecore», a seconda della declinazione locale, mentre la medesima creatura nelle aree collinari prende anche il nome piuttosto diverso di «cheicatrèpp 'calca trippe, schiaccia pance', cheicabìgul 'calca ombelichi' o più semplicemente cheicarëll 'calcarello'» ci ricorda Gilberto Casadio, autore del Vocabolario etimologico romagnolo. Derivato probabilmente, dalla creatura mitologica dell’Incubus – un demone che giaceva sui dormienti per procurargli sogni terribili e, in qualche caso, approfittarsi delle donne durante il sonno -, il Mazapégul è stato studiato a lungo da chi si occupa di folklore ed etimologia, ed è impossibile in queste righe dar conto delle tante ipotesi formulate sulla sua origine. Il dizionario del Morri, del 1840, definisce il Mazzapëdar: «Quell’oppressione, e quasi soffocamento, che altri sente talora nel dormir supino», evitando le ipotesi soprannaturali.
Tornando al folletto propriamente inteso, quasi tutti concordano nel definirlo assai piccolo di statura, dalle forme scimmiesche (ma con qualche attributo felino) e abituato a muoversi di notte, quando si intrufola nelle case lasciando il suo berretto rosso sull’uscio. In linea di massima il Mazapégul si limita a disturbare il sonno delle persone, talvolta scompiglia i capelli delle donne o procura disordini e guai all’interno delle stalle.
Per liberarsene, la tradizione indica numerosi sistemi, quasi tutti però ritenuti poco efficaci (tra questi raccontavamo mesi fa l’usanza di piantare una Caveja fuori casa). Buttare il suo berretto – fonte del suo potere maligno - dentro a un pozzo è una delle «tattiche» più comuni: il Mazapégul si ribellerà gridando Dam indrì e’ mi britin! Dam indrì e’ mi britìn!, ma questo sistema rischia di rendere il folletto ancora più cattivo. Le testimonianze tradizioni concordano sul fatto che di sistemi sistemi realmente efficaci ne esiste – ahinoi – solamente uno. E quell’«ahinoi» non è casuale, dato che ci viene perseguitato dal Mazapégul in ultima istanza non avrà altra opzione se non quella di fare orrore allo stesso folletto. Come?
«L'unico rimedio veramente efficace – spiega Gilberto Casadio - consiste in un'operazione un po'... particolare. La persona tormentata dal Mazapédar deve sedersi su un vaso da notte in camera da letto e, mentre fa i suoi bisogni, mangiare un pezzo di pane con una mano e spidocchiarsi (o fingere di farlo) con l'altra: il Mazapédar rimarrà talmente schifato da tale spettacolo che non oserà mai più mettere piede in quella casa!». Le versioni meno edulcorate della, ahem…, «tradizione», riportano anche l’immancabile commento del Mazapégul, che offesissimo si rivolge alla malcapitata (figurarsi se non era femmina…) dicendole: «Bruta vaca, t’megn et pess et fe la caca!» (per la traduzione confidiamo nel buon gusto del lettore).
Una delle prime incarnazioni «pop» - per così dire – del folletto della tradizione, risalirebbe al costume del Carnevale, che secondo la testimonianza del folklorista lughese Paolo Toschi prevedeva, in Romagna, anche maschere raffiguranti i folletti. In particolare Toschi ricorda un canto del Carnevale faentino in cui si intonava Nô sen qui dla bretta rossa, con riferimento al copricapo tipico del Mazapégul.
Se si parla di fiabe, in quelle romagnole «moderne» del ravennate Emilio Levrano Duranti il Mazapégul compare spesso insieme ad altri essere spaventosi come la Bόrda (la cattivissima strega che può arrivare a strangolare i bambini) e la Biscia Bova o Besabôa (un misto fra un turbine e un enorme serpente acquatico, una sorta di drago). Un piccolo pantheon di creature che, nei tempi spietati e schiavi del marketing che viviamo, verrebbe voglia di usare con scopi biecamente commerciali; d’altra parte, il best seller Gnomi di Wil Huygen e Rien Poortvliet non fece altro, quarant’anni fa, che confezionare magistralmente le leggende popolari delle foreste nordiche. E la figura dello Spirito maligno raccontata nel libro non è così diversa dal nostro Mazapégul.
Un folletto destinato a rimanere «di nicchia» ma comunque celebrato con affetto dai romagnoli ancora oggi. Esiste ad esempio il profilo facebook E Mazapegul, con un risicato centinaio di fan, e a Civitella di Romagna si può ordinare una birra al Mazapegul Brewpub, legato appunto all’omonimo birrificio. In rete è poi reperibile Personaggi fantastici della Romandiola, sorta di e-book gratuito e illustrato da Mario Pini.
E poi c’è la musica. Al di là della documentale registrazione di 20 secondi di un’antica Canzone del Mazapegul in dialetto (reperibile nella pagina youtube di Rodolfo Mercuriali), anche il gruppo combat-folk dei Radìs (sciolti ormai da qualche anno) ha inciso nel 2011 una Mazapegul cantata nel dialetto di Alfonsine nell’album «Speriamo sia un fiasco». Anche questa è reperibile su Youtube, come del resto la Mazapegul che nel 1998 pubblicarono i… Mazapegul! La band di San Piero in Bagno è una vera leggenda della musica romagnola degli ultimi vent’anni. Si muoveva tra Capossela, i balcani, il folk-punk e la Romagna arcaica, incise due album (il brano eponimo sta sul secondo «Piccolo Canto Nomade») e dai Mazapegul – stroncati dalla morte prematura del frontman Dido – sono usciti il conduttore radiofonico Valerio Corzani e il cantautore Mirco Mariani, ultimamente alle prese con una coloratissima revisione dell’epopea dei Casadei nel progetto Extraliscio. Due ambasciatori della Romagna, insomma, partiti da un incubo dispettoso che pensavamo svanito nelle nebbie del tempo.
 
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