«L'intervista del secolo» di Chiara Zanaboni – 2G dell'I.C. Nelson Mandela (Crema)

Ravenna | 30 Dicembre 2021 Dante700
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Perché, nel 2021, dopo 700 anni dalla sua morte, studiamo ancora la sua vita e le sue opere?

«Inizialmente, ad essere sincero, non credevo di riuscire a raggiungere questo enorme traguardo. Io ho sempre considerato la mia vita un fascio di esperienze, poesie, tradimenti, amori e molto altro, ma mai mi sarei aspettato che, dopo così tanti secoli, le persone avrebbero continuato a studiare e apprendere dalla mia storia e dalle mie poesie».

Potrebbe, se riesce, sintetizzare i principali passaggi della sua vita che l’hanno resa l’uomo che ha scritto una delle più grandi opere della letteratura mondiale?

«Beh, innanzitutto nel maggio 1265 mia madre, monna Bella, mi mise al mondo nella casa di famiglia, a Firenze. Dopo soli 5 anni, purtroppo, monna Bella morì e mio padre, Alighiero, si risposò. Nel 1274 incontrai, per la prima volta, la mia musa ispiratrice, Beatrice, alla festa di calendimaggio. In seguito, nel 1289, partecipai alla battaglia di Campaldino e combattei in prima linea. Un anno dopo, alla giovane età di 24 anni, Beatrice morì, infliggendo alla mia anima una ferita estremamente profonda. Dopo cinque anni, nel 1295, entrai in politica e iniziò un capitolo duro e buio della mia vita. Nonostante il mio enorme impegno, i miei compaesani mi tradirono e, nel 1302, mi esiliarono dalla mia amata Firenze. Iniziò così il mio lungo viaggio per le vie dell’antica Italia. Dopo 56 anni di un’intensa esistenza, il mio corpo si spense tra il 13 e il 14 settembre 1321, durante un viaggio di ritorno a Ravenna».

Se non ricordo male, il suo ultimo rifugio è stato Ravenna. Ci racconti qualcosa di questa affascinante città e del significato che ha assunto nella sua vita.

«In effetti, dopo molti anni di esilio, mi recai a Ravenna e vi trovai diversi uomini molto simili a me che, come il sottoscritto, amavano e conoscevano la letteratura, la scienza e la filosofia. Lo stesso podestà di allora, Giulio Novello, adorava la letteratura e si dimostrava un uomo affabile e intelligente. In quella splendida città portai i miei tre figli, Pietro, Jacopo e Antonia e trovai una casa in cui passare il resto dei miei giorni svolgendo ogni tanto qualche mansione per conto del podestà. Fui felice di trascorrere i miei ultimi anni in quella incantevole città, ricca di ispirazione e gioia. Infatti, fu proprio lì che scrissi la maggior parte del Paradiso, terminando così la mia “Commedia”. E’ per questo che attribuisco a questa città un ruolo chiave nella mia esistenza. Senza di essa, infatti, non credo sarei riuscito a cogliere il fine di questa nostra vita e di cosa essa si aspetta da noi».

Grazie molte per questo accurato resoconto. Ed ora potrebbe raccontarci cosa, secondo lei, l’ha resa il più grande poeta italiano della storia?

«Io non penso di essere il più grande poeta, ma semplicemente un uomo che niente ha fatto oltre a scrivere le parole che rappresentavano al meglio ciò che era, è e sarà la vita. Sicuramente mi sono impegnato e mi sono anche guadagnato una certa fama, ma ciò che io ho composto non voleva essere un mezzo per arrivare al successo. Semplicemente volevo scrivere rime che riuscissero a rappresentare al meglio ciò che per me è stata la vita e cosa mi ha donato. Insomma, perché dovremmo aspirare al successo o alla fama, quando non riusciamo nemmeno a percepire la vita e la sua bellezza anche nelle cose più semplici, come l’affetto di una madre o una carezza donata da una mano amica?».

La ringrazio enormemente per questa illuminante intervista. Se mi permette, vorrei farle ancora una piccola domanda.

«Molto volentieri».

Qual è, secondo lei, parlando della Divina Commedia, la migliore delle tre cantiche?

«A ciò non saprei rispondere perché, nonostante siano totalmente diverse tra loro, le tre cantiche rappresentano ciò che per me dovrebbe essere l’esistenza di ogni singolo individuo. Ovvio, il Paradiso è ciò a cui tutti noi dobbiamo puntare, però ciò che io ho scritto voleva, in primis, far comprendere che l’errore è umano e che senza di esso non apprenderemmo alcunché dalla vita. Ecco perchè, secondo me, è più importante vivere l’errore e pentirsi di quello sbaglio, anziché sopravvivere alla vita senza sbagliare una virgola, tentando di ostacolare l’ordine naturale delle cose e della vita stessa. Infine aggiungo che nel mezzo del cammino della vita, ci si può trovare in una selva oscura, dove la retta via sembra smarrita, ma quando rivedi la luce comprendi che solo le stelle ti guideranno per sempre e che solo l’amore traccerà la mappa di questo lungo cammino che è l’esistenza».

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