IL CASTORO | Operazione Mato Grosso: è un mondo a parte?

Romagna | 06 Giugno 2019 Blog Settesere
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Ilaria Mingazzini
Ogni anno, nelle classi del liceo Torricelli-Ballardini, alcuni volontari del movimento Mato Grosso presentano le loro attività per coinvolgere nuove persone. La presentazione sembra dividere il mondo in persone vere e false e i comportamenti in virtuosi e insignificanti. Per questo Il Castoro ha provato a capire meglio le idee che ispirano il loro agire. L’Operazione Mato Grosso è stata fondata da padre Ugo De Censi nel 1967. Il gruppo di volontari di Faenza si incontra tre volte a settimana per eseguire lavori il cui ricavato è devoluto alle missioni dell’America Latina (Perù, Brasile, Ecuador, Bolivia) come afferma Antonio Verna, storica figura del movimento. Una ragazza, che desidera restare anonima, racconta la sua esperienza, altre 10 persone contattate hanno preferito non rispondere.
Com’è l’ambiente al Mato Grosso?
«Le persone sono molto aperte e coinvolgenti e fanno del loro meglio per far sentire a proprio agio soprattutto i nuovi arrivati. Quando vado da loro mi sento sempre ben voluta, nonostante non frequenti regolarmente il gruppo: abbracci e sorrisi sinceri mi accolgono ogni volta che li raggiungo per passare una giornata insieme. È un ambiente che riempie l’anima e il cuore, poiché distoglie dai problemi che ci facciamo continuamente, valorizzando alcuni degli aspetti che contano davvero nella vita. Ogni volta torno a casa felice di aver fatto qualcosa che sarà importante per qualcun altro che probabilmente non ha una casa, da mangiare e da bere».
Il Mato Grosso è un movimento religioso?
«Coloro che per primi ne hanno fatto parte, come Daniele Badiali e il fondatore, erano religiosi. Hanno trascorso molto tempo in paesi poveri dove la religione è estremamente importante. Ma oggi la fede non è un requisito essenziale. Ci sono credenti e non credenti, dunque c’è la possibilità di partecipare o meno alle messe quando si celebrano».
Come giudichi l’operato dei volontari?
«Ritengo che quello che fanno sia ammirevole, anche perché molte sono le persone che dedicano tutto il loro tempo libero al gruppo con impegno, energia e allegria, nonostante la fatica e altrettanti sono i missionari che trascorrono la loro intera vita in Sudamerica».
La convinzione nel loro operato li porta ad essere chiusi nei confronti del mondo esterno?
«Non condividono molti aspetti della realtà che ci circonda, perciò cercano di portare avanti i loro ideali e i loro sogni, secondo alcuni valori per loro molto importanti, come la sincerità, la fiducia, la riflessione su se stessi, sul mondo e sugli altri, ma anche la semplicità, il dialogo e il credere in ciò che si fa. Se si decide di prendere questa strada, tutto il resto, compresi gli amici, si tende a lasciarlo da parte perché lo si ritiene un mondo grigio, in cui le persone sprecano tempo».
C’è qualche particolare esperienza che vuoi raccontare?
«Ai campi mi sono sempre divertita, anche se si lavora tutto il giorno. Durante la serata si canta e si risponde a domande come: “Perché partecipi al Mato Grosso?”, “Perché non ti piace la tua vita al di fuori del gruppo?” o “Perché vuoi aiutare gli altri?”. Questi momenti portano a pensare a quanto c’è di utile nei nostri lavori e a quanto siano banali i nostri problemi quotidiani, di fronte a quelli di persone che non hanno da mangiare, non hanno una casa o la possibilità di andare a scuola».
La redazione ha rivolto alcune domande anche ad Antonio Verna, da 40 anni volontario del movimento, più volte partito come missionario.
Quali sono le principali attività svolte dai volontari?
«Nelle missioni costruiscono abitazioni, oratori, scuole e ospedali. I lavori che si fanno in Italia per sostenerli sono raccolte del ferro, di vestiti, di frutta, legna, insieme a imbiancature e verniciature».
Quali sono i mezzi utilizzati per gli sgomberi?
«Bisogna chiederlo ai ragazzi, perché io non faccio gli sgomberi».
Chi è il responsabile delle decisioni e delle spese a Faenza?
«I ragazzi».
Come si entra in contatto col gruppo oltre che con il passaparola?
«Solo con il passaparola».
Cosa rappresenta per lei il lavoro presso questo movimento?
«Oltre che un modo per impiegare il tempo libero, è anche un modo di spendere la vita.  Prestate attenzione al mondo in cui vivete, è un mondo grigio, falso. Quando ho incontrato le persone vere mi sono accorto ancor di più di questo mondo d’immagine, pieno di cose appariscenti e superficiali. Non penso e desidero le cose di questo mondo, ma una vita più semplice, buona, con rapporti più belli, chiari e amichevoli. Le persone vere che ho conosciuto io erano gente allegra, sorridentissima, realizzata, non frustrata».
Chi sono le persone vere per lei?
«Le persone vere sono quelle che cercano Dio e quindi non perdono tempo. In questo modo restringono la loro visione della realtà, ma si sentono più libere, capiscono con più facilità e si riconoscono tra loro. Infatti per quanto possano essere diversi gli ambienti a cui dedicano il loro tempo, hanno in comune lo stesso modo di vedere la realtà».
Gli atei non sono persone vere?
«Sì, ma devono camminare. Anche gli atei possono cercare Dio attraverso le loro azioni buone».
E chi non cerca Dio?
«Vive per se stesso. Gli manca qualcuno che lo scuota e gli dica di stare attento a come vive la sua vita, di rendersi conto che può fare anche lui qualcosa, essere buono e utile per qualcuno. Il Signore per tutti ha un progetto, sta a noi riconoscerlo da soli o con l’aiuto di qualcuno. Per questo non bisogna stancarsi di lasciarsi inquisire, chiamare, mettere in discussione da qualcuno che chiede di riflettere a fondo».
Proseguire gli studi, ad esempio, è un atto di egoismo?
«Sono piuttosto convito che studiare serva poco, serve la vita. Chi sceglie di andare all’università deve farlo per vocazione, non perché lo fanno tutti».
 
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