«Ottanta rose mezz’ora»: un romanzo che segna una svolta per Cristiano Cavina
Silvia Manzani
«Questa storia è stata per diverso tempo una presenza, un fantasma. Non se ne andava, rimaneva lì. Finché un giorno, in treno, di ritorno da una lezione alla scuola Holden di Torino, ho pensato al fatto che avevo appena spiegato agli allievi di scrivere senza pensare a cosa avrebbe pensato la gente. Ma io non stavo mettendo in pratica quel consiglio». Dopo una settimana, lo scrittore di Casola Valsenio Cristiano Cavina aveva già finito la prima bozza di «Ottanta rose mezz’ora» (Marcos y Marcos), il libro che sarà presentato venerdì 1 febbraio alle 18.30 alla libreria Liberamente di Ravenna (viale Alberti 38). Una storia che parla molto d’amore, altrettanto di sesso e di sesso a pagamento, mettendo insieme contrasti forti, a tratti quasi impressionanti e fastidiosi.
Cavina, questo romanzo segna senza dubbio una svolta nella sua scrittura. Ha avvertito questo passaggio anche dentro di lei?
«Con la chiusura della pizzeria a Casola ho sentito che finiva un mondo e che avrei dovuto scrivere d’altro. Lo faccio ancora con la penna stilografica, su quaderni dai quali, poi, ricopio sul computer. Ma questa volta ho intinto il pennino nel sangue, non riuscendo a rimanere leggero ma risultando, nei fatti, ben poco accomodante. C’è tanto sacrificio umano, in questa storia, ed era difficile farlo in modo ortodosso».
Quanto l’ha frenata, davvero, la paura del giudizio dei lettori?
«Moltissimo nella fase in cui questa storia era ancora dentro di me e non trovavo il coraggio di condividerla. Molto poco, invece, adesso. Quando scrivi e pubblichi, devi spogliarti di quel timore o per lo meno smettere di chiederti che cosa penseranno, che cosa diranno. In questo caso, non ho davvero la più pallida idea delle reazioni. Spero, come sempre, che piaccia e lasci un segno».
Uno dei temi è la convivenza tra «purezza e schifo», tra «squallore e fascino»: quanto sente che siano universali, questi ossimori?
«Mi sembra che spesso gli eroi dei libri abbiamo problemi di poco conto, che non facciano realmente errori gravi, scelte pesanti e compromettenti. Io volevo parlare di essere umani, di comuni mortali con i loro pensieri sconci, con il loro squallore. Potevo limare certe parti, potevo limitarmi. Ma ho preferito, alla fine, lasciar scorrere la storia così come l’avevo addosso. Mi chiederanno quanta autobiografia c’è, io risponderò che senza dubbio in parte ce n’è. Ma poi, importa davvero quanta? Stiamo pur sempre parlando di un romanzo, che appena è uscito non era già più mio ma di chi lo leggerà».
Nel libro si parla anche di una certa inadeguatezza genitoriale del protagonista maschile. Lei è padre di due bambini, come è stato confrontarsi con certe assenze?
«Sono partito dall’osservazione di certi padri, di certe dinamiche genitori-figli. Mi ritengo un papà presente, anche se un po’ pasticcione. Ma mi interessava scrivere di quando gli adulti, i propri bambini, non riescono ad agganciarli, a maneggiarli. Credo sia un argomento molto attuale, che caratterizza anche alcuni momenti della vita di certi genitori certo più all’altezza».
Molto più «tradizionale», pensando ai suoi libri precedenti, l’elevatezza di Sammi, la protagonista femminile, rispetto al compagno…
«Sono cresciuto con le donne, ho sempre pensato che siano migliori, di certo più coraggiose. E le mie protagoniste, in generale, dimostrano questo pensiero.
Questa volta, però, non siamo a Casola Valsenio ma in un luogo chiamato F.
«Il Corriere della Sera ha scritto che è Faenza. Ribatto che potrebbe essere Ferrara, Forlì, meno probabile che sia Firenze…».