Giovanni Nadiani presenta «Romagna Village»: «Il dialetto ci smaschera»
«A scor in dialet parchè se me a dges sti cvel ch’a cvè in itagliân, u m’parreb d’cuntêt dal patach e invézi agli è dal varitê!». Il dialetto come lingua che smaschera le menzogne, specie quelle che ci raccontiamo da soli. A dirlo è «nunî Zvanî», uno degli sgangherati archetipi romagnoli che riempiono le pagine di Romagna Village (Discanti), nuovo libro con cd allegato di Giovanni Nadiani, che, nell’«auto-analisi» che chiude il volume, spiega che il «Dialetto ibridato di contemporaneità dei miei personaggi è utile per smascherare le nostre vuote mode, i nostri atteggiamenti incongrui, che una certa affettazione nell’uso dell’italiano pseudo-standard contribuisce ad omogeneizzare in un presunto senso comune nel quale tutto sprofonda annacquato». Romagna Village è una nuova immersione dello scrittore e docente faentino nei territori del DialetKaBARett, una Romagna linguisticamente iperrealista, contaminatissima, che l’autore presenterà venerdì 16 alle 21 alla Bottega Bertaccini di Faenza, insieme a Giuseppe Bellosi e con l’accompagnamento del chitarrista Pier Giorgio Oriani. «Anche il suo è un esperimento – dice Nadiani -, Pier Giorgio ha rielaborato balli popolari romagnoli ibridandoli con melodie classiche. Il cd allegato al libro invece contiene solo pezzi parlati, senza musica, anche perché il dialetto è anzitutto una lingua parlata. Sempre meno, in realtà».
Ma con sempre più parole straniere. C’è un capitolo sulla «Romagna Technology». E’ da lì che arrivano la maggior parte delle nuove parole che usiamo?
«Ultimamente sì, è anche normale nelle materie tecniche. In genere, però, stampa e tv abusano di termini stranieri anche per parlare di cose comuni: vedi il food e lo chef. I linguisti han tenuto d’occhio questa tendenza, che poi dovrei dire trend, ahimè, e molte di queste parole deperiscono in fretta, le dinamiche somigliano al linguaggio giovanile, le mode cambiano e certe parole restano ma con significati storpiati. In genere l’italiano è stato “pigro” in tanti settori nell’assorbire pedissequamente i termini anglosassoni senza cercarne dei propri».
E il dialetto? Resiste anche meno dell’italiano?
«L’italiano, oggi, è più malleabile che mai, contrariamente a quanto pensiamo è molto studiato all’estero, quindi molto parlato. Il dialetto, invece, era uno slow-food linguistico ma i suoi parlanti l’hanno lasciato a se stesso, facendolo deperire. Per anni si è confrontato con l’italiano e ora siamo bombardati dalle lingue anche nei “Sócc'mel network”!»
prosegue su setteserequi, in edicola dal 16 ottobre.