CICLISMO | Il mondo della bici secondo il solarolese Raffaele Babini, direttore del Giro

Ravenna | 04 Luglio 2013 Cronaca
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Il ciclismo e la bicicletta in tutti i loro significati. Conversazione con Raffaele Babini «Meglio il Giro del Tour» Angelo Emiliani «Armstrong ha sbagliato, ma che senso ha tirar fuori le provette dieci anni dopo? I prelievi a Di Luca son stati fatti il 26 aprile e la mattina del 29 già c’era il responso: positivo. Lo si è tenuto segreto per settimane col risultato di macchiare un Giro d’Italia bellissimo. Non era più opportuno lasciarlo a casa e offrire un’opportunità ad un giovane? Della positività di Santambrogio già si sapeva alla quarta tappa». Parte fatalmente da qui, dagli ennesimi casi di doping, una riflessione a 360 gradi sul ciclismo con Raffaele Babini, personaggio fra i più stimati ed autorevoli, uno che di quel mondo conosce interpreti e segreti. E che della bicicletta ha una concezione che potremmo definire filosofica oltre che sportiva.

«Il ciclismo - continua - ha pagato e sta pagando le sue colpe in termini di immagine e di risorse, più di quanto avvenga per altri sport in cui le pratiche illecite sono altrettanto diffuse. Gli sbagli dei corridori vengono amplificati a mille, quelli di altri atleti passano quasi sotto silenzio. C’è molto da rivedere e da correggere. Ciò non toglie che vadano severamente censurate le stupidaggini che qualcuno continua a commettere pur sapendo di controlli incrociati ed efficaci». Eppure tanta gente continua ad amare il ciclismo. Basti pensare al Giro, nonostante il maltempo da lupi di certe tappe. «Il Giro d’Italia di quest’anno è stato bellissimo, un grande spettacolo onorato dai corridori con sacrificio e professionalità. Non sarà un caso se la nostra è stata definita la corsa più dura del mondo nel Paese più bello del mondo. Seguita dal primo all’ultimo chilometro da un popolo di appassionati pronto ad affrontare pioggia e neve per vedere la corsa e il proprio campione per pochi secondi. Un popolo corretto e sportivo che rispetta la fatica dei corridori. Con tanti giovani che inneggiano a Pantani, magari senza averlo mai visto correre, perché di questo mondo fatto di umanità e di sacrificio, di grandi imprese e di debolezze, Marco continua ad essere il simbolo, un mito». E’ in corso il Tour del centenario, la Grande boucle tanto celebrata ma spesso prevedibile e persino noiosa. Cos’ha più del Giro per essere considerata la corsa più importante? E’ solo questione di soldi? «Per come viene disegnato, il Giro lo si può vincere o perdere tutti i giorni. Il Tour ormai non è soltanto un avvenimento sportivo. Negli ultimi trent’anni le istituzioni francesi hanno puntato sul suo aspetto mediatico facendone l’evento dell’estate, coinvolgendo grandi aziende e mobilitando grandi risorse. Ciò ha portato ad una macchina organizzativa che sa di militare, che blinda i corridori. Il Giro è diverso perché fonda la sua popolarità su un rapporto più umano e diretto coi suoi protagonisti. Fa parte ed è l’espressione della nostra storia, della nostra cultura. Ha avuto ed ha la funzione di collegare e legare il nostro Paese da Nord a Sud, da un mare all’altro, mostrando itinerari, città, borghi e scenari meravigliosi che giustamente la Rai valorizza coi suoi servizi». Giro e Tour, continuiamo col confronto… «Il Giro d’Italia è più bello. E più duro per i percorsi nuovi e difficili che ogni anno propone. Un grande come Indurain ha vinto cinque Tour e due Giri soltanto, qui ha faticato molto. In passato era più facile l’accoppiata Giro-Tour, oggi non vedo sulla scena atleti in grado di farla». Il ciclismo e il territorio, le città, le istituzioni. Come sta evolvendo il rapporto? «Nonostante i limiti imposti dal Patto di stabilità, tante amministrazioni locali investono per mantenere le strade in ordine così da ottenere il passaggio del Giro o un arrivo di tappa. Lo guardano in 170 Paesi, quale altro mezzo può essere più efficace per far conoscere il proprio territorio con le sue bellezze e le sue peculiarità? Un solo esempio: da diversi anni vengono affrontate salite inedite che poi diventano meta di tantissimi ciclisti. E’ successo col Mortirolo, sta succedendo col Crostis e con tante altre. Quello dei pedalatori è un mondo dai grandi numeri e che alimenta un turismo itinerante, animato dalla curiosità e dalla voglia di affrontare nuove emozioni». E’ sufficiente e corretto quanto si sta facendo per avviare i giovani al ciclismo e allo sport più in generale? «L’attività promozionale è troppo stressante, pervasa da un agonismo sfrenato. Le società dovrebbero avvalersi di insegnanti di educazione fisica che sappiano favorire una crescita corretta praticando discipline sportive diverse. Quanto al ciclismo, l’eccessiva competizione finisce per essere causa di emorragia fra esordienti e allievi». E c’è da fare i conti con la difficile coabitazione sulle strade fra traffico e pedalatori. «In effetti pochi possono disporre di spazi idonei per apprendere le regole della circolazione e l’uso corretto della bicicletta. Faenza ha un impianto prezioso e che può essere ulteriormente valorizzato affinché più famiglie possano muoversi in libertà, lontano dal pericolo e dallo smog. Il corretto uso della bici dev’essere un messaggio costante trasmesso dalle scuole. Ciò aiuta formare una cultura che tiene in maggiore considerazione gli utenti deboli della strada, i pedoni e i ciclisti, come già avviene nel Nord Europa. E a rispettare di più l’ambiente rendendosi conto che in piccole città come le nostre la bicicletta può essere il mezzo più veloce ed economico per gli spostamenti quotidiani casa-lavoro e casa-scuola». In bicicletta dunque, perché fa bene alla tasca e alla salute. «Non v’è alcun dubbio. Lo consigliano medici e cardiologi in quanto pratica sportiva aerobica, che non comporta carichi agli arti e alla schiena. E che offre un grande senso di libertà. Lo si coglie nelle persone che hanno scoperto la bicicletta dopo aver cessato l’attività lavorativa e che ripetono con rammarico: Quanto tempo ho perso». Torniamo al ciclismo delle corse. Gli sponsor si dileguano, le società calano e di buoni organizzatori ce n’è sempre meno. «La lunga crisi economica in cui siamo immersi sottrae risorse a tutto lo sport. Ma ci sono anche altre ragioni. Il movimento dilettantistico è troppo professionale rispetto a Paesi dove il ciclismo sta mettendo adesso radici solide. Siamo fra quelli che hanno insegnato al mondo intero a fare ciclismo e ora altri ci stanno superando. A ciò va aggiunto che il calendario del Pro Tour ha messo alle corde le corse di fascia B, impegnando gli atleti da gennaio a fine ottobre e non consentendo loro di partecipare ad eventi fino a pochi anni fa blasonati. Avevamo e abbiamo un grande patrimonio organizzativo che così va esaurendosi». C’è all’orizzonte un campione di casa nostra in grado di farci rivivere le emozioni alla Pantani? «Vincenzo Nibali non è un divo, ma è un campione vero. Quest’anno ha già vinto la Tirreno-Adriatico battendo il fior fiore del professionismo, è stato fra i protagonisti alla Sanremo, ha vinto il Giro del Trentino e ha dominato il Giro d’Italia. E’ un ragazzo cresciuto nel modo giusto migliorando di anno in anno, serio e disponibile. Moreno Moser è una grande speranza: forse ha accusato il peso della responsabilità e di aspettative premature».
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