Anteprima per la mostra forlivese dedicata al Decò

Romagna | 23 Gennaio 2017 Cultura
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Sandro Bassi
Aprirà l’11 febbraio - e peraltro molte cose sono già pronte e una sostanziosa anteprima è stata fornita al pubblico da Serena Togni alla sede Auser di Forlì –, ma si possono già anticipare molte cose sulla nuova mostra dei Musei di San Domenico di Forlì. L’attesissima esposizione sull’Art Déco («Gli anni ruggenti in Italia») si svolgerà appunto al San Domenico, sempre con la supervisione di Antonio Paolucci e Gianfranco Brunelli, ma quest’anno con la cura di uno specialista qual è Valerio Terraroli, che studia l’argomento da oltre trent’anni. Argomento che non è, ovviamente, nuovo alle mostre: basti citare, tra le recenti, Aosta (2003), Roma (2004), Rovigo (2009). Ma la qualità e quantità delle opere (oltre 400), rendono peculiare, se non unico, l’appuntamento forlivese.
Per convenzione si inizia a parlare di Déco dal 1925, con l’Esposizione delle Arti Decorative e Industriali Moderne di Parigi; è ovvio tuttavia che questo stile si ponga in continuità col precedente Liberty, con il quale condivide istanze estetiche e rivendicazioni sociali di diffusione dell’arte, anche attraverso una serialità, o addirittura una «industrialità», della produzione. In realtà, come ha chiarito Serena Togni, fin dall’immediato dopoguerra compaiono i germi di questa «sensibilità nuova»; germi che a loro volta erano stati anticipati fin dal 1914 o addirittura ’13. L’attenzione della rassegna si concentra proprio sugli anni Venti, contrassegnati da quella grazia «più morbida, effeminata, estenuata», che lascerà posto nel decennio successivo a linee più «secche», perentorie e mascoline, fino al monumentalismo della seconda metà anni Trenta.
Insomma, rispetto alla «linea serpentinata» del Liberty (quella del colpo di frusta e delle sciarpe svolazzanti) ne compare una più essenziale e pulita, con forme tornite e di ricercata eleganza. Le fonti restano, almeno in parte, legate alla Secessione Viennese (1898) e a mostri sacri come Matisse, Derain, i Fauve e alcuni Futuristi e Suprematisti. Permangono altresì i miti della macchina, del progresso tecnologico, dei nuovi materiali, dell’abolizione delle gerarchie artistiche (e si sviluppano quindi le arti applicate) e degli esotismi, allargati anche ad Africa (in particolare Egitto) e Sud-America, oltre al già presente Oriente.
Ma chi vedremo in questa rassegna? Alcuni maestri assoluti, a partire da Giò Ponti, allora appena trentenne ma capace di disegnare per la Richard Ginori vasi che coniugano classicità e modernismo, sensualità e nitore. Di uno scultore come Libero Andreotti compaiono La ciliegiara del 1919 con l’occhio a mandorla e Signora con ventaglio del ’20, mentre a suo modo inquietante, come un presepe «macabro» con il Bambino ridotto a feto, è La concezione del grande Adolfo Wildt. Altrettanto affascinante il croato Ivan Mestrovic, con un marmo, Contemplazione, del ’24, e un bronzo (Vergine vestale, 1917) che possiede la ieraticità di un Buddha. Non poteva mancare Arturo Martini con Leda, del ’26, dove l’amplesso con Giove in sembianze di cigno è stilizzato in una posa di asciutta solennità.
In pittura troviamo Luigi Bonazza con le sue composizioni oniriche - potremmo ben dire orfiche - di stampo dannunziano, Vittorio Zecchin con preziosità cromatiche orientali e una serie di illustratori, resi immortali dai manifesti delle Expo di Monza, fra cui l’imolese-faentino Giovanni Guerrini, che nel ’25 vince il relativo concorso grafico con una donna nuda che versa acqua sopra due antilopi.
Va aggiunto, infine, che a Faenza al Mic sarà presente una sezione collaterale con opere del museo stesso e del vicino Misa, e che l’elenco degli autori vede anche altri nomi, tutt’altro che secondari: Francesco Nonni, Galileo Chini, Anselmo Bucci, Pietro Melandri e Domenico Rambelli per la ceramica, per la pittura la maliziosa Tamara de Lempicka assieme a Severini, Casorati, Cagnaccio di San Pietro, Bocchi, Timmel, Marchig, Oppi. Sarà la piacevole commistione di linguaggi - oltre alle opere anche abiti, maschere, ferri battuti, lampade e altro - a fare di questa mostra un’immersione in un’epoca.
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