Primo lungometraggio per il regista Gerardo Lamattina sabato 1 al Jolly

Ravenna | 01 Ottobre 2016 Cultura
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«Quattro chili in meno, ma tanta soddisfazione» è questo il primo commento del regista ravennate di adozione Gerardo Lamattina alle prese con l’uscita ufficiale di Cimitero azzurro, il suo primo lungometraggio. Esordio ravennate al cinema Jolly sabato 1 ottobre alle 18.30 (repliche il 3, 4, 5 ottobre, ore 21), mentre lunedì 3 ottobre sarà presentato da Tahr Lamri al Caffè letterario; oltre al regista sarà presente anche il musicista Ramon Matteo Arevalos, autore di alcuni brani della colonna sonora. Ma Arevalos non è l’unico ravennate che ha scelto di contribuire al film, anche in veste inedita: tra gli attori il regista Edo Tagliavini e l’ex candidato sindaco Raffaella Sutter.
Citata direttamente dal regista la frase di Kurt Vonnegut «siamo quello che fingiamo di essere» è sicuramente il preludio di questo film  dove Rosario è un ‘allegro’ imprenditore senza scrupoli che si è costruito al nord una vita  fatta di piccoli, e non sempre puliti, affari. Ma il destino gli cambia, chissà se per sempre, la vita e lo porta ad affrontare un viaggio in Romania, come racconta Lamattina.
Il primo lungometraggio, dopo tante esperienze - dal teatro ai corti - a 50 anni. Perchè?
«Il cinema è sempre stato una delle mie prerogative, ho realizzato diversi corti acquistati dai principali network televisivi italiani, ma mi è sempre piaciuto esplorare nuovi mondi. Dopo il teatro ho deciso di tornare al cinema e ho pensato che avevo una storia da raccontare da tanti anni».
Come mai per le riprese ha scelto la Romania?
«Ad essere sincero è capitato in maniera accidentale: pensavo soltanto alla storia di un viaggio con il protagonista che cerca un riscatto. In Romania ho capito che era un paese molto simile al sud di 30 anni fa, e quindi alla mia infanzia. E’ un mondo in divenire, dove la gente si sente proiettata verso il futuro. Poi cinque anni fa ho conosciuto il Cimitero allegro, al confine con l’Ucraina, un posto molto affascinante, una sorta di Spoon River. Adesso il posto è diventato  monumento Unesco e non siamo riusciti a girare li, ma abbiamo trovato una soluzione diversa».
Il film non ha un finale rosa.
«Non c’è un lieto fine classico, del resto non è una commedia. Mi piacciono le opere aperte che lasciano allo spettatore un finale aperto. Io apro tante finestre, alcune le chiudo e altre no. È interessante che il film ponga delle domande più che creare delle risposte».
Imprevisti durante il viaggio?
«L’ho girato in soli 15 giorni, una cosa veramente folle per un lungometraggio on the road. Di notte non dormivo per pensare alle riprese del giorno dopo. Ci sono stati momenti difficili, per questo ho adottato anche delle sceneggiature collettive con tutta la troupe, composta da 17 persone, e tutti gli accadimenti e gli impedimenti li ho fatto diventare una risorsa. Il film si è fatto da sé, mantenendo però l’idea originaria».
Prossime tappe?
«Spero che lo prendano in qualche festival in Italia, come Trieste, Torino e Milano, adesso ho qualche data in giro, sto sperimentando. E’ un film troppo piccolo per essere preso in considerazione dai grandi Festival: nessun attore famoso, nessun produttore. Però la cosa paradossale è che piace di più al pubblico che ai festival. Spero che qualche Festival sia interessato, ma a me interessa sicuramente di più il pubblico».
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