Elena Nencini
Si chiama Human (sbarrato da una linea nera) lo spettacolo, in anteprima nazionale a Ravenna, di Marco Baliani e Lella Costa che debutterà al Teatro Alighieri venerdì 8 (replica sabato 9), con musiche originali di Paolo Fresu e la regia dello stesso Baliani, che ha fatto quella che si potrebbe definire una prova aperta agli amici a Cagliari, essendo una co-produzione Sardegna Teatro -Mismaonda. Lo spettacolo nasce dalla volontà di raccontare il dramma dei migranti, persone che nel tentativo di riaffermare la propria dignità affrontano un viaggio che spesso porta a negare anche i diritti basici dell’essere umano. Baliani e Costa hanno portato spesso sul palco temi importanti per la nostra attualità, ma con uno sguardo anche ironico.
Baliani la scelta del titolo significa che siamo diventati disumani?
«No, se no non farei lo spettacolo. Facciamo un atto umano proprio facendo teatro. Il teatro si deve preoccupare proprio di questi argomenti. Anche perché siamo anche fatti di parti disumane. Bisogna parlare delle nostre paure, insicurezze rispetto alle migliaia di persone che sono arrivate, ma anche della capacità di avere uno sguardo altruistico, solidale che continuiamo ad avere».
Come si fa a non cadere nella retorica affrontando questi argomenti?
«Sembrerebbe quasi scontata la retorica infatti, ma cerchiamo di muoverci come in una barca in equilibrio e di non cascare. Abbiamo deciso di non raccontare delle vere e proprie storie, ma un arazzo di accadimenti, con toni che vanno dall'epica al racconto, alla narrazione, agli scontri verbali, alle pure immagini. Per sfuggire ho cercato di toccare i nervi scoperti. A chiudere lo spettacolo Lella Costa fa il Canto del nostro smarrimento, che rappresenta molto bene lo spettacolo e il nostro atteggiamento. Ma ci sono altri momenti forti per esempio quando tre pescatori in un peschereccio avvistano i profughi e non sanno se fermarsi o no, sono carichi di pesce e perderanno il carico se ritardano. Non si cosa faranno, il teatro mostra i conflitti, ma non le soluzioni, le risposte».
Cosa deve il teatro oggi rispetto alla realtà contemporanea?
«Si può essere contemporanei anche con Shakespeare non è il cosa, ma il come. Credo che bisognerebbe sempre riuscire a toccare l'indicibile, a fare domande sul nostro presente visitando il passato prossimo e il passato remoto. Il teatro serve a inquietare gli dei. Lo spettatore deve uscire dal teatro con delle domande addosso non con delle risposte. Vorremo costruire un teatro spietatamente capace di andare a mettere il dito nella piaga, dove non si dovrebbe, dove sarebbe meglio lasciar correre. E andare a toccare i nervi scoperti della nostra cultura riguardo alla dicotomia umano/disumano. Senza rinunciare all’ironia».