Carcere, parla la direttrice: "Spazi angusti e troppo turn over, ma la direzione è giusta"

Ravenna | 29 Gennaio 2016 Cronaca
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Durante i sette anni in veste di direttrice del carcere di Ravenna, Carmela De Lorenzo è riuscita a far fronte al problema del sovraffollamento - «situazione oggi sotto controllo» - e a portare la città oltre la casa circondariale, diventata, all'occorrenza, palcoscenico e «opportunità di arricchimento per tutti». «Sono tanti - spiega la direttrice - i risultati ottenuti nel corso degli anni che ci portano a ritenere che siamo nella giusta direzione. Mi riferisco, innanzitutto, all’azione di recupero delle persone: anche solo una sottratta al rischio di recidiva è un successo per l'intero sistema penitenziario». De Lorenzo, chi sono i detenuti presenti oggi nel carcere di via Port'Aurea? «La popolazione detenuta a Ravenna è composta, per circa la metà, da stranieri, per lo più appartenenti all’area del Maghreb, e da diverse persone con problemi legati all’abuso di sostanze stupefacenti. Il tempo di permanenza medio è compreso tra i sei mesi e l’anno. Il problema del sovraffollamento è stato affrontato ed è tuttora sotto controllo; la situazione è costantemente monitorata anche dal Superiore provveditorato regionale che dispone, su richiesta della direzione, trasferimenti verso altre sedi nel momento in cui viene superata la soglia tollerabile stabilita dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. La gran parte dei detenuti è imputata o condannata per reati contro il patrimonio e per droga». Quanto è stato importante avere aperto la struttura alla città? «Avere portato la città dentro il carcere è stato fondamentale. Trasformandosi in teatro, la struttura è diventata un’opportunità di arricchimento per tutti attraverso la cultura, la musica e l’arte, elementi che aiutano a superare l’isolamento delle sbarre. Il carcere è una comunità nella comunità e non un luogo chiuso separato. E la stessa società, con tutte le sue espressioni - istituzioni, enti locali, associazionismo e privato sociale - è chiamata a partecipare all’opera di reinserimento dei condannati nel rispetto del dettato costituzionale dell’articolo 27». Quali collaborazioni esistono e quali sono i risultati? «Le collaborazioni sono tante ed i risultati sono molto soddisfacenti. Ne sono testimonianza le ultime iniziative realizzate per le festività natalizie, rese possibili grazie alla partecipazione delle istituzioni, della Arcidiocesi di Ravenna-Cervia, della consulta del volontariato, del mondo della cooperazione, dell’imprenditoria, di tante associazioni di volontariato e di privati. Ravenna è una città dai tanti stimoli e offre un associazionismo diversificato in grado di occuparsi dei detenuti e delle loro più svariate esigenze che spaziano dai bisogni materiali al corso di pizza alle manifestazioni teatrali». Progetti futuri? «Le idee sono ancora tante ed i progetti per il 2016 spaziano dal teatro ai diversi laboratori formativi - al termine di alcuni viene rilasciato regolare attestato -: si va dal settore della ristorazione alla formazione da barman, dalla cartotecnica alla fotografia fino alla scrittura creativa, oltre alle attività scolastiche e lavorative che sono la base del processo di maturazione necessario per riemergere dal baratro e tentare di ricominciare». Quali sono i punti di forza e di debolezza del sistema? «Punti di forza sono dati soprattutto dal sostegno della società esterna e dalla grande passione del personale dell’istituto, che opera nel rispetto del delicato equilibrio sicurezza-trattamento. Nel nostro lavoro non basta conoscere le tecniche, ma bisogna mettere il cuore per coniugare legalità ed umanità. Un punto di debolezza è rappresentato invece dagli spazi a disposizione, che purtroppo costituiscono il grosso limite di questa struttura. Un altro elemento negativo è dato dal turn over eccessivo, che ci caratterizza e che crea difficoltà nell’applicazione del modello pedagogico per chi resta in carcere solo pochi mesi. Di conseguenza siamo costretti a reimpostare continuamente i nostri interventi, con un aggravio di lavoro per tutti gli operatori penitenziari». Come valuta l'esperienza ravennate? «Molto positivamente. Sono tanti i ricordi che affollano la mente quando si pensa alle persone - moltissime - che hanno varcato negli anni la soglia di questo istituto e che, pur macchiatesi di crimini più o meno gravi, hanno effettuato percorsi di cambiamento che hanno favorito il passaggio ad una nuova dimensione, quella della vita interiore e della riflessione. Penso ai tanti che, nel tempo, si sono trasformati in persone più inclini al pensiero, allo studio e disposte, perché no, all’autocritica. E' proprio da qui che si riparte».
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