Ravenna, va in pensione il direttore del pronto soccorso: «I miei ultimi tre anni in prima linea».

Romagna | 08 Ottobre 2021 Cronaca
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Federica Ferruzzi
E’ ricco di metafore il racconto di Andrea Morelli, medico che entro il mese di ottobre lascerà la direzione dell’unità operativa del Pronto soccorso e della Medicina d’urgenza dell’ospedale di Ravenna, relativo all’esperienza trascorsa in reparto durante la pandemia. «Per due anni – ha spiegato Morelli – abbiamo prestato servizio per 12 ore vestiti come cavalieri medievali occupandoci di emergenza, urgenza, ma anche di reparto: vi assicuro che se non è eroismo questo, non so cos’altro possa esserlo». 
Medico da trent’anni, negli ultimi tre Morelli si è trovato a gestire l’emergenza-urgenza del Santa Maria delle Croci e, pensando al Covid, ha osservato: «E’ come se avessi bevuto direttamente l’amaro, senza, però, aver consumato il pasto. Ora è arrivato il momento della pensione e ne prendo atto, con tristezza, ma anche con sollievo». 
Morelli, qual è il bilancio degli ultimi tre anni?
«Come in tutti i momenti caldi e particolari, mai successi nella storia di questo paese, e nella storia della medicina - bisogna infatti risalire al Medioevo per trovare una situazione con impatti cosi gravi a livello sanitario, sociale ed economico - il bicchiere può essere visto mezzo vuoto o mezzo pieno. Se lo si vede mezzo vuoto è perchè siamo stati forzatamente obbligati a risolvere situazioni di emergenza e urgenza prolungate. E’ come quando arriva uno tsunami e ci si deve concentrare sui piani di sopravvivenza, di conseguenza non ci siamo potuti occupare di nient’altro. Nel secondo caso, invece, il bicchiere va visto mezzo pieno in quanto abbiamo resistito molto bene: una situazione del genere avrebbe infatti potuto portare ad una catastrofe totale». 
Quali sono stati i momenti più critici?
«Ce ne sono stati tanti. Io mi alzavo la mattina e mi aspettavo una giornata peggiore di quella precedente, cosa che regolarmente si verificava. La prima necessità era quella di proteggere, per primi, i miei collaboratori, che non esito a definire eroi. Per i primi sette, otto mesi, ogni giorno è stato peggio di quello precedente e in alcuni momenti abbiamo dovuto attivare, anche se per pochi giorni,  il piano di emergenza urgenza di evacuazione dell’ospedale, in quanto non potevamo più far fronte all’arrivo degli ammalati. Questo è stato possibile grazie alla collaborazione in essere con gli altri ospedali dell’Azienda e, anzi, mi scuso con le persone con cui ho dovuto alzare la voce, ma in quei momenti non si possono avere dubbi. Abbiamo dovuto attivare percorsi diversi per isolare pazienti Covid, o ipotetici tali, per tenerli lontani da quelli Covid free e questo è avvenuto quattro volte in due anni, con problemi logistici e di gestione del personale davvero incredibili». 
Da un lato, quindi, spazi inadeguati, dall’altro personale carente...
«La carenza di personale parte da molto lontano, è frutto di un errore di valutazione a livello centrale, ma c’è un altro discorso, molto più sottile, ma più pragmatico, che riguarda il carico di lavoro a cui un medico che opera in questo reparto è sottoposto. Nell’emergenza urgenza un medico dev’essere sempre presente, non sa cosa entrerà dalla porta tra un secondo e deve fare fronte ad una serie di problematiche che non sono urgenze, ma che vengono comunque richieste. Uso una metafora: come fa una città che ha un unico supermercato aperto? Dove va la gente a comprare ciò che serve? Va lì. E cosa succede se tutti vanno lì per qualsiasi tipo di merce? Succede che si fa la fila. I medici non vogliono più stare in questo reparto perchè sono maggiormente esposti rispetto a colleghi che lavorano altrove. Nelle scuole di specialità la metà dei posti è stata inevasa, i medici fanno fatica a scegliere una vita di guardie anche se, e questo posso dirlo dopo 30 anni di attività, si è nel posto più bello del mondo. Si diventa “tridimensionali”, non si diventa specialisti, ma si è in grado di spaziare su tutta una serie di problematiche in maniera proficua. In proposito, già da tempo ho proposto alla direzione che tutti gli specialisti trascorressero un periodo in pronto soccorso, di modo che, una volta arrivati nel loro reparto, possano avere spalle più forti».
Come valuta il progetto di ampliamento presentato nei mesi scorsi?
«Ben venga l’aumento di spazi ma, come dicevo, serve personale per presidiarli. L’ultima volta il pronto soccorso è stato rifatto nel 2012 e già si era in ritardo di 15 anni. Siamo arrivati a dover processare 380 persone nelle 24 ore, e tutte sono da vedere. Se si pensa che per ogni turno si va dai tre ai cinque medici, quanto deve impiegare ognuno di loro per visitarle? Non certo due minuti. Ora, vogliono che facciamo in fretta o che li visitiamo? Anche se i numeri, oggi, si sono ridotti, il punto è che dobbiamo anche fare attività di reparto e il personale non può dividersi in due, sarebbe come chiedere ad un elettricista di dare anche un’imbiancata, di sicuro può farlo, ma i risultati non sono garantiti». 
Qual è, ad oggi, la situazione dal punto di vista Covid?
«La pentola è ancora calda, ma ha smesso di bollire e vanno mantenute tutte le precauzioni adottate fin qui. E’ necessario che tutti i pazienti di ingresso mantengano le protezioni. Pur essendo caratterizzati da numeri ridotti, i percorsi hanno subito un rallentamento dovuto all’applicazione di procedure che garantiscono pazienti e operatori: come dicevo, i numeri sono calati, ora siamo sui 100-150, a volte si arriva anche a 180, ma il vero problema è che continuiamo a fare anche servizio di reparto».
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