Ravenna, Marco Martinelli «arriva in sala» con il suo film dantesco «Fedeli d’amore»

Romagna | 25 Marzo 2022 Cultura
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Elena Nencini
Sono cinque i film che Marco Martinelli, regista e drammaturgo del Teatro delle Albe, ha realizzato negli ultimi quattro anni, partendo da spettacoli teatrali per trasformarli in qualcosa di altro, perché, come ha dichiarato in epoca di pandemia uno spettacolo non va filmato: «il teatro va visto in presenza».
Martinelli ha collezionato nella sua carriera artistica sette Premi Ubu, Golden LaurelMess Festival di Sarajevo, Premio Hystrio, Premio Enriquez alla regia, premio alla Carriera «Journées théâtrales de Carthage», firmato oltre cinquanta regie e i suoi testi sono pubblicati e messi in scena in tantissimi paesi del mondo, oltre ad essersi contraddistontoo in ambito teatrale per una partecipazione allargata dei cittadini alle sue opere, anche con la creazione della non scuola.
Dopo Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi, The Sky over Kibera, Er e Ulisse XXVI Martinelli si è cimentato con la regia di Fedeli d’amore, che nel fine settimana verrà proiettato al CinemaCity di Ravenna, dove riscrive e reinventa per il cinema l’omonimo poemetto scenico che è valso a Ermanna Montanari, sua compagna di teatro e di vita, il settimo premio Ubu. Lo spettacolo  e il film ruotano attorno alla figura di Dante, alla ricerca vocale di Ermanna Montanari e alla musica elettroacustica di Luigi Ceccarelli, seguendo la struttura di un «polittico in sette quadri». Il film pur avendo la voce di Montanari a fare da filo conduttore si sviluppa, tra scene  in interno ed esterno, dove parlano voci diverse: la nebbia di un’alba del 1321, il demone della fossa dove sono puniti i mercanti di morte, un asino che ha trasportato il poeta nel suo ultimo viaggio, il diavoletto del «rabbuffo» che scatena le risse attorno al denaro, l’Italia che scalcia sé stessa, Antonia figlia dell’Alighieri, e “una fine che non è una fine”. Le riprese del film si sono svolte interamente a Ravenna e nei suoi dintorni, ed hano partecipato anche adolescenti e cittadini. 
Martinelli è partito da uno spettacolo teatrale per trasformarlo in film, come si fa?
«Lo so neanche io. Amo talmente il cinema che non vedevo l’ora di cominciarlo a farlo io. Quando ho sentito che c’era la possibilità di trasformare Fedeli in un film ne ho approfittato subito. Fedeli è fatto di voci, era una sorta di concerto con la voce di Ermanna e la musica di Luigi: da lì sono partito per inventarmi una partitura di visioni. A partire dalla morte di Dante nella cameretta che si trova al Molino Spadoni, un edificio del 1200 che ha stessa grana dell’epoca del Poeta. E’ stato più facile smembrare lo spettacolo, farlo a pezzi, in una sorta di rito dionisiaco, e rimontarlo».
Perché il titolo «Fedeli d’amore», la confraternita a cui Dante dice siano destinati proprio i suoi versi?
«Si discute ancora oggi, tra gli studiosi, su questo nome: nella Vita nova, Dante si rivolge 9 volte ai fedeli d’amore, sta inventando l’essere poeta in una società fatta di mercanti, guerrieri, politici, un ruolo ripescato dall’epoca del suo maestro Virgilio. I fedeli d’amore sono una sorta di programma rivoluzionario per questo mondo che si basa sulla guerra e sulla violenza. Non c’è bisogno oggi della guerra in Ucraina per ricordarci che il mondo è sempre stato pieno di conflitti: Dante lo sapeva bene».
La differenza tra lavorare come regista in teatro e per il cinema?
«Questi miei film non sono teatro, partono da li ma lo reinventano in un altro modo. Non sono la registrazione dello spettacolo. Il teatro è il qui e ora del corpo e della carne. Il cinema è uno sguardo diverso, mangia il teatro lo uccide e crea un altro sogno».
Cinque film in quattro anni, come mai?
«Sono stato preso da un raptus che viene da lontano. Dai 20 anni in poi mi sono nutrito di Carmelo Bene e di Fellini, di Pasolini e di Herzog. Negli ultimi anni ho sentito che era arrivato il momento di buttare il cuore oltre l’ostacolo, dopo San Suu Kyi ho capito che potevo farcela, anche con mezzi poveri il cinema si può fare come lo senti».
Da una sola voce, quella di Ermanna, come l’ha trasformata in più voci?
«In realtà la voce è sempre quella di Ermanna, ma la sua immagine si è trasformata in quella di centinaia di volti di ravennati. E’ stato una sorta di Cantiere Dante sullo schermo. Nel Flegetonte ho chiamato 30-40 donne di Ravenna che partecipavano allo Inferno del 2017 proprio alla scena del fiume infernale. Per esempio nella scena della morte di Dante che, all’epoca aveva vicino intellettuali, sapienti, ho chiamato intellettuali come Ivan Simonini, Franco Gabici, Franco Masotti. Sicuramente al capezzale del Poeta ci sarà stato anche Guido Da Polenta quindi ho chiesto al sindaco Michele de Pascale di essere presente. La regia è stata una festa ogni giorno»
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