Ravenna, lo chef Marco Cavallucci sull’universo Spadoni: «Offriamo delle esperienze che raccontano la Romagna contemporanea nel piatto»
Riccardo Isola - Marco Cavallucci è una delle firme storiche e attuali della cucina made in Romagna. Primo chef bi stellato, la seconda stella (dall’85 e mantenuta per ventisei anni) è frutto anche suo savoir-faire durante la permanenza (diversi decenni) nel tempio del gusto romagnolo della Frasca di Bolognesi a Castrocaro Terme. Una professionalità, costruitasi nel corso degli anni grazie a diverse esperienze in cucina in giro per l’Italia di terra e di mare, messa disposizione di un territorio che ha scontato una pressione quantitativa, soprattutto legata alla riviera, ma che per fortuna ha avuto, e soprattutto sta avendo, una sorta di Rinascimento filologico di ciò che si crea nel piatto. Si tratta di una importante sfida contemporanea che trova sostanza all’interno di un progetto di filiera, di cultura e di indirizzo chiamato «Universo Spadoni». Cavallucci, infatti, ha aiutato il concept project del gruppo nell’avviamento dei locali che l’azienda ha voluto disseminare in Emilia Romagna in questi anni. Stiamo parlando di Casa Spadoni a Faenza, di Ca’ del Pino e Mercato Coperto a Ravenna, e dello spazio che si sta rivedendo nel cuore di Bologna.
Chef alla luce della sua esperienza in cucina è cambiata la cucina in questi decenni?
«Tanto e per fortuna giustamente. Un cuoco si forma nel corso degli anni e delle esperienze e deve essere bravo a saper interpretare, anticipare e assecondare sia i gusti dei propri clienti sia la sua necessaria aspirazione a personalizzare la visione che si lascia nel piatto. Fare cucina è un atto creativo di amore, sacrifico ma anche competenza. A volte, soprattutto in questi ultimi anni, noto che la dimensione e la competenza tecnica non solo è ampia e diffusa ma diventa un puro esercizio di forma. Serve, per carità, ma quando prevarica questo all’amore, al calore e alla capacità d’immedesimazione e di piacere che il cliente ha con il piatto e la tua cucina allora diventa non un valore ma, ripeto, un mero esercizio di stile».
Alla luce di quello che ha detto a che punto è la Romagna in piatto?
«In Romagna ci sono tanti ristoranti che fanno ottime proposte ma secondo me manca un quid diffuso legato al calore, all’ospitalità e alla voglia di emozionare. Ci sono grandissimi testimoni di questo, è indiscutibile, ma forse servirebbe uno sforzo in più da parte di tutti perché, mi ripeto, la tecnica e l’abilità sono si fondamentali ma non devono essere l’unico ingrediente. Non trovare difetti è un prerequisito fondamentale ma serve anche un po’ di poesia».
L’incontro con il mondo Spadoni come arriva e come si perfeziona, o meglio, si stabilizza?
«Premetto che Spadoni era uno dei soci della Frasca per cui direttamente c’era già una conoscenza. Dopo aver saputo il fatto che avrei lasciato la Frasca, durante la sua parentesi aperta a Milano Marittima, mi ha voluto coinvolgere in questo suo visionario progetto gastronomico che aveva in mente di realizzare. Mi è piaciuta molto la sua ambizione e quindi l’ho sposata e mi sono affiancato nella fase progettuale prima e poi nell’avviamento delle diverse realtà che nel corso degli anni sono state aperte in Romagna e nel bolognese».
Oggi cosa segue direttamente?
«Il lavoro che seguo è legato al concetto di squadra, questo è fondamentale. Soprattutto perché perseguiamo l’obiettivo di offrire sempre qualità ma, e questa è la sfida che crediamo si stia vincendo e concretizzando, con i grandi numeri. Solo a casa Spadoni, per esempio stiamo parlando di diverse centinaia di posti, oltre un centinaio a Ca’ del Pino e altrettanti per il mercato coperto. Però oggi dei ristoranti presenti io seguo direttamente la realtà del Mercato Coperto di Ravenna. Ripeto con i collegi Luca Rigoni (chef di Ca’ del Pino) ed Emiliano Bucci (Chef di casa Spadoni) c’è un confronto continuo, costruttivo e profondo».
Una delle caratteristiche importanti, non banali e scontate per il suo lavoro è quella della filiera. Cosa offre l’universo Spadoni in questo ambito?
«Una visione veramente d’avanguardia. La filiera delle carni, ovviamente delle farine e quindi i suoi trasformati come pane e paste fatte rigorosamente al mattarello, dei formaggi e dei salumi è non a chilometro zero ma praticamente domestica. Un valore aggiunto straordinario nel racconto che vogliamo fare verso i nostri clienti. La materia prima di qualità va trasformata in modo efficace. Negli anni ‘70 mi s’insegnava che un cuoco bravo riesce a trasformare una cosa non buona in eccellente, beh oggi per fortuna non è così e quindi su questo cerchiamo e vogliamo puntare sempre di più».
Che cosa cerca di dare e creare nei piatti?
«Sempre e comunque la riconoscibilità della stagione, del territorio, della freschezza e semplicità del gusto. Pochi ingredienti ma buoni sono il segreto della mia, ma credo di poter dire della filosofia complessiva del progetto di Spadoni, cucina. Valorizzare prodotto, stagionalità e territorio sono le parole d’ordine che ci accompagnano. Ci piace comunque anche innovare e contaminare. Non siamo fossilizzati sul concetto di ‘autarchia’ alimentare, per carità, perché vogliamo dare esperienze che parlino di una Romagna contemporanea del gusto. Quindi non cerchiamo estetica allo stato puro ma immersione nel gusto a trecentosessanta gradi».
Cosa deve fare un cuoco, uno chef, per poter rappresentare al meglio un’idea contemporane a di cucina?
«Credo che ci siano tanti fattori concomitanti. Quando si entra in cucina bisogna pensare di dare il massimo di se stessi per valorizzare, al meglio, le materie prime che si hanno a disposizione. Quindi tecnica, certamente, ricerca, tempistiche e visione ma anche e soprattutto un gioco di squadra che, qui da Spadoni come in anche molte altre realtà ristorative, parte dal vertice e arriva fino al fondamentale ruolo che ha la sala».
A proposito di sala questa è la nota dolente che sentiamo ripetere sempre più spesso, è una «pecca» che condivide?
«La mancanza di personale è purtoppo tanto indiscutibile quanto difficile da poter pensare di riuscire a colmare in tempi brevi. E’ vero che ci sono stagionali ma servono, per fare buona ristorazione, una professionalità e una formazione veramente continua e profonda. La sala è la ribalta dello spettacolo del cibo, per questo servono attori capaci di comunicare e rappresentare al meglio quello che succede nel retroscena della cucina».
La cucina in Romagna oggi, ha ancora la possibilità di esprimersi a livelli differenti rispetto a un appiattimento di proposte che si sta riproducendo con sempre maggiore velocità?
«Credo fermamente di si. Ma più che un discorso general-territoriale io voglio attestarlo soprattutto in relazione alle impostazioni che stiamo cercando di seguire, a livello quotidiano, per esempio qui da Spadoni. Le potenzialità ci sono, per continuare a crescere in qualità, ma ci sono anche tante difficoltà, che non si limitano solo all’offerta della cucina ma anche e soprattutto dell’ambiente, a quella dei servizi d’accoglienza che si offrono, delle proposte enologiche che vuoi provare a dare alla clientela. Una clientela che, non possiamo nasconderlo, è sempre più esigente, competente e che vuole emozionarsi, e noi cerchiamo di farlo».