Ravenna, Giacobazzi per due sere all’Alighieri: «L’evoluzione del ‘patachismo’ si nasconde in rete»

Romagna | 02 Aprile 2024 Cultura
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Federico Savini
«Finché mi diverso in scena, e ti posso assicurare che ancora oggi mi diverto da matti, è un buon segno. Quando non mi divertirò più ma insisterò comunque, di sicuro qualcuno lo capirà meglio di me. E verrà a dirmi che è ora di smettere. Ci conto». Può contarci Andrea Sasdelli, meglio noto come Giuseppe Giacobazzi, anche se ancora non è successo, tanto che il comico romagnolo più famoso d’Italia proprio fra qualche giorno tornerà nella sua terra (non che viva in capo al mondo, ma Bologna è pur sempre «oltre confine»), con un doppia data ravennate del suo ultimo spettacolo. Il pedone - Luci, ombre e colori di una vita qualunque andrà in scena al teatro Alighieri di Ravenna martedì 2 e mercoledì 3 aprile, alle 21. Un monologo che volta e rivolta il ventre molle di una società dove tutti sognano di essere dei pezzi pregiati; e dove brilla il fascino della normalità. Un’ora e mezza di spettacolo, comico ma al tempo stesso interiore, che avanza per mosse strategiche, come in una scacchiera. Sulla quale Giacobazzi si muove da giocatore esperto. «È il secondo tour di questo spettacolo - dice lui stesso -, un ritorno a Ravenna che per me è sempre come tornare a casa. Sono di Alfonsine, credo di poterlo dire senza sembrare ruffiano…».
«Il pedone» è uno spettacolo recente, con battute che vanno «testate» sul pubblico. E il pubblico non lo freghi, per quanto affezionato, se non ride si vede. Pensi che, fra tutte i tipi di artisti, il comic sia quello che si mette in gioco di più?
«Le classifiche non le so fare, ma di sicuro è vero che si rischia. La possibilità che il pubblico non si diverta e sempre dietro l’altro, e come dici se succede si vede, c’è poco da fare. Se vuoi fare questo mestiere bisogna che il pubblico rida; se non rede devi cambiare mestiere. Ecco, da questo punto di vista è semplicissimo».
Un cantante può sempre far felice il pubblico con il vecchio repertorio, ma in uno show comico non è così, o comunque lo è fino a un certo punto…
«Sì, un po’ di repertorio puoi sempre sfruttarlo, fa anche piacere a molti, ma le storie e le battute devono rinnovarsi e sintonizzarsi anche sul presente e su quello che sei tu. La prova del nove, in questo lavoro, ce l’hai continuo?».
È più logorante o più stimolante?
«A logorarmi è soprattutto il trasferimento da un teatro all’altro, quello comincio a soffrirlo, ma sul palco mi diverto sempre, è una cosa che non mi ha assolutamente mai stancato. Come dicevo, se dovesse accadermi e non me ne capacitassi, spero che qualcuno me lo dica».
Lo spettacolo usa la metafora del pedone degli scacchi per parlare delle manie di protagonismo che dilagano nella società. Non è una novità, ma come siamo messi oggi?
«Direi che l’eccesso di protagonismo non era mai arrivato al livello che c’è oggi, è proprio spaventoso. È tutto sempre più basato sull’apparire e sempre meno sull’essere ciò che si è. Il teatro continua a stimolarmi tanto anche perché c’è un confronto diretto col pubblico. Durante lo spettacolo ma anche dopo, quando ti fermi a chiacchierare con quelli che sono rimasti. Molti sono stupiti di trovarmi uguale sulla scena e fuori dal palco. È uno stupore che mi rincuora, lo vivo come un complimento, anche perché loro sono lì per Giacobazzi, non è detto che gli piaccia anche Andrea Sasdelli! E poi mi fa piacere avere riscontri sul fatto che resto quello che ero, specie in un mondo in cui l’apparenza, come dicevo, ha preso il predominio su tutto. I social indubbiamente hanno contribuito a questo stato di cose».
Tu come li usi?
«Ho un rapporto quasi puramente lavorativo con i social, informo il pubblico sugli spettacoli, le date e magari le apparizioni televisive. Poi mi capita di postare anche altro, ma per lo più ne faccio un uso professionale. Ecco, non sono un influencer, questo no!».
Se fossi nato qualche decennio dopo e ti fossi giocoforza dovuto confrontare con i social proprio per fare carriera, che avresti fatto?
«Quel che è certo è che le dinamiche del mio lavoro, ma in generale del mondo dell’intrattenimento, sono cambiate. Io cominciai trent’anni fa grazie a Duilio Pizzocchi che mi volle nel suo Costipanzo Show ed ebbi l’opportunità di fare una gavetta vera, con tanta esperienza. Era proprio diverso lo scenario, c’erano un sacco di locali che facevano cabaret e che pagavano, un dettaglio non da poco, con molte meno burocrazie, tra l’altro. Non che oggi uno non si possa fare la gavetta, ma devi fartela gratis, attraverso quelle formula “open mic” che hanno un nome fighissimo ma anche poi alla fine di solito non ti danno una lira. Il mondo dei social e dello streaming ha dinamiche diverse, che conosco meno proprio perché mi sono formato in un altro mondo, ma di sicuro c’è grande fermento, molti che provano a fare i comici, non così pochi che ci riescono. Poi, in generale, c’è questa moda di assumere uno stile anglosassone, la cosiddetta “stand up comedy”, che però alla fine è quello che faccio pure io, stringi stringi. Possiamo girarci intorno quanto vogliamo ma il punto resta sempre lo stesso: la gente deve ridere, può andar bene ogni formula».
Quanta Romagna c’è in un monologo sul protagonismo? Siamo la terra del «pataca», ma anche quella bar, dove tante volte trovi qualcuno che ti riporta con i piedi per terra…
«I miei racconti nascono quasi tutti dal bar, la mia scuola di vita. Oggi c’è una mutazione nel “patachismo”, è più virtuale. Una volta il vero pataca lo inquadravi a distanza, avevi proprio un riscontro visivo, mentre oggi non sai mai quali filtri una si inventi con i social. Che poi sti pataca virtuali sono diversi dai vecchi, perché quando li vedi dal vero spesso tutto hanno fuorché l’aria del pataca…».
Da circa un decennio porti in scena spettacoli più riflessivi, sempre divertenti ma dichiaratamente autobiografici. Una scelta che porti avanti…
«Sì, e direi anche una forma di invecchiamento! D’altra parte, io non sono proprio battutista, ma più un raccontatore di storie e di aneddoti. Prima o poi li finirò, ma finché ne ho andrò avanti. Avere avuto successo di sicuro mi aiuta a insistere su questa linea ma credo l’avrei fatto comunque. Devo seguire la mia inclinazione, altrimenti perderei l’ispirazione e il gusto di andare in scena. La spettacolo prima di tutti di piacere a me, a quello che sono oggi. E così, ho spogliato il personaggio Giacobazzi dal suo macchiettismo iniziale, spingo anche meno sulla cadenza e inserisco riflessioni e intimità. Soprattutto i finali degli ultimi sei spettacoli sono certamente più serie di quelli di un tempo».
Novità sul fronte televisivo?
«Ho appena registrato le nuove puntate di “Only Fun” sul Nove. È una rete che mi piace e questo show, pur ricalcando un format piuttosto classico, con il conduttore e i comici che vengono introdotti uno dopo l’altro, ha una freschezza che si tocca con mano. È anche veloce, frizzante, mi piace. Poi è chiaro che la tv serve sempre anche a livello promozionale».
È passato quasi un anno dall’alluvione. Abiti a Bologna ma chiaramente per molti versi sei stato comunque coinvolto. Che impressione ti ha fatto?
«Mi ha lasciato senza parole, mi è sembrato che il destino si sia accanito in modo incredibile. Ho amici a Faenza che già avevano avuto problemi con la prima alluvione, poi la seconda li ha colpiti di nuovo, travolgendo anche parenti e amici che ho a Conselice, Lavezzola e Lugo. Vedere l’acqua in centro a Lugo è stato un trauma. Quando sono tornato a Faenza, per uno spettacolo, ho visto il mio manager piangere, mi ha detto che da una settimana non riusciva a smettere, e lui è uno che di solito non si scompone. Ma vedere tutta quella gente in così grande difficoltà, controbilanciata dalla forza d’animo dei ragazzi che spalavano nel fango, è una cosa che non può che commuovere. Mi auguro che si stia lavorando bene alla ricostruzione e soprattutto che lo si faccia il più possibile nell’ottica di prevenire. Si spende anche meno»…
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