IL CASTORO | Intervista a Cesare Finzi, la memoria della Shoah a Faenza

Romagna | 08 Aprile 2019 Cultura
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Domenico Salazar

Quando a Faenza si parla di Shoah e di testimoni diretti, il pensiero va a una persona eccezionale, il dottor Cesare Finzi. Tra coloro che incontrò durante la sua infanzia vi fu Giorgio Bassani che, oltre ad essere stato uno dei più importanti scrittori del '900, fu anche il suo insegnante nella scuola ebraica di Ferrara, dopo la promulgazione delle leggi razziali.

Nel 1938 gli Ebrei vennero esclusi da scuole e università perché non appartenenti alla razza italiana. Lei allora era un bambino. Ci fu qualche adulto che tentò di spiegarle cosa stava succedendo? Se sì, che cosa significò per lei? Come cambiò la sua quotidianità?

«Era il settembre del 1938, avevo 8 anni, ero andato a comprare il giornale per papà e capii che non sarei potuto andare nella scuola pubblica con gli altri bambini, come avrei voluto. Avevo fatto i primi tre anni nella scuola ebraica, poi l'esame per entrare in quella statale. Il mio desiderio di stare insieme a tutti gli altri miei coetanei non si sarebbe più potuto realizzare. Intanto a casa mia era scoppiata una tragedia: per mio padre, che nel 1915 era andato via di casa per combattere nell'esercito italiano, sapere che il figlio non poteva più andare a scuola, era un'umiliazione inconcepibile. Per me, bambino, non era facile capire che, in quanto ebreo, non potevo più parteciparvi. Tutto ciò era una giustificazione incomprensibile. Dunque ho svolto la quarta e la quinta nella scuola ebraica e nel giugno del 1940, subito dopo la dichiarazione di guerra dell'Italia, sono andato a fare l'esame per entrare alle scuole medie. La cosa che mi colpì di più fu la preoccupazione di tutti gli insegnanti, in caso di allarme, per decidere chi dovesse andare prima nei rifugi, tra le classi dei bambini italiani e quelle degli ebrei».

Giorgio Bassani insegnò agli studenti ebrei nella scuola «di emergenza» di via Vignatagliata a Ferrara. Cosa rappresentò per lei la figura di quel maestro?

«Nel ricordo di bambino, Bassani fu per me un insegnante piuttosto severo e nervoso. In seguito, diventando più adulto, compresi il suo valore come antifascista e di fatto a Ferrara fu attivo in tal senso.  Nel maggio del 1943 improvvisamente sia lui che la professoressa Matilde Bassani, che  non era sua parente, scomparvero. Le lezioni terminarono quando i due furono imprigionati, poiché  avevano preso parte a un'associazione assistenziale in difesa di ebrei, che dall'estero cercavano rifugio in Italia. Dopo l'8 settembre lui, Matilde  e il professore di ginnastica, che era un campione di pugilato, andarono a Roma e parteciparono alla lotta partigiana».

Giorgio Bassani, dunque, oltre ad essere stato uno dei più importanti scrittori del Novecento, fu anche un docente. Che ricordo ne ha in tale veste? Come spiegò a dei bambini di 8 anni che da quel giorno non avrebbero più potuto frequentare la scuola pubblica?

«Bassani si era laureato ma non aveva ancora insegnato. È stato chiamato dai dirigenti della comunità ebraica, che avevano deciso di dare vita alle scuole medie. Fu il mio insegnante di italiano dal 1940 al 1941. Non ci spiegò in particolare ciò che stava succedendo, anche perché ormai, a 10 anni compiuti,  iniziavamo a comprendere la situazione. Ricordo un uomo irrequieto, estremamente balbuziente soprattutto in quel periodo: in seguito aveva imparato a tenere la pipa in bocca e, grazie ad essa, riusciva a controllare meglio questo problema. Era molto impulsivo e si arrabbiava con facilità con noi ragazzi. Rammento un particolare e purtroppo sono rimasto il solo sopravvissuto che lo può raccontare: Bassani era campione di tennis e lo studio dove noi andavamo a lezione era proprio di fronte ai campi da gioco. Nonostante le finestre fossero chiuse, si sentivano le voci dei giocatori e il tipico rumore delle palline. Vedere la faccia di Bassani in quei momenti era uno spettacolo, perché si capiva che stava soffrendo, voleva andare a giocare. La sua vita era il tennis e parte della sua tensione nervosa derivava dal fatto che non era lì con la racchetta in mano».

Come si svolgevano le lezioni nella piccola scuola che lei ha frequentato?

«Non vi erano aule sufficienti nella scuolina di via Vignatagliata, dove il preside, professor Veneziani, insegnava matematica. Eravamo quattro ragazzi e con la bicicletta ci spostavamo da un'abitazione all'altra dei professori per seguire le lezioni».

Durante quel periodo, ricorda se qualcuno a lei vicino ebbe il coraggio di ribellarsi, di alzare la testa?

«Non c'è stata una reazione specifica, però chi cercò di fare obiezione fino all'ultimo fu Italo Balbo, governatore della Libia. Egli era ferrarese e amico di tutti gli ebrei e di Bassani. L'unico a contrastare il partito fascista, l'unico che cercava di opporsi alle leggi razziali fu proprio lui. Quando dalla Libia si recava a Ferrara dove viveva la famiglia, la prima persona che andava  a trovare era il cugino di mio padre, Gualtiero Finzi; lo prendeva sotto braccio e lo portava al bar fascista. Spesso ci si chiede perché gli ebrei non si ribellarono: la situazione era tale da non poterlo fare. Appena ci fu la possibilità di partecipare ad un'attività antifascista gli ebrei lo fecero. Il più giovane partigiano italiano fu  un ebreo bolognese di 14 anni. Come ho già detto in precedenza, lo stesso Bassani fu partigiano durante la Resistenza».

Giorgio Bassani ha scritto, tra gli altri, il celebre romanzo Il giardino dei Finzi-Contini, dove ha raccontato la realtà della ricca borghesia ebraica a Ferrara durante il fascismo. Modificando nomi e luoghi, racconta una storia vera sulla famiglia di Silvio Magrini, presidente della comunità ebraica cittadina. Ci sono elementi o abitudini riportate da Bassani in cui lei può riconoscersi?

«Non ci sono troppi elementi o situazioni all'interno del libro nelle quali posso immedesimarmi, ma ricordo il campo da tennis che era nel giardino di casa Magrini, messo a disposizione di tutti i giovani ebrei ferraresi dal presidente della comunità. Per questo motivo io e altri ragazzini della mia età andavamo a giocarci, ma quasi sempre arrivava Bassani con il professore di ginnastica e  noi eravamo costretti a guardarli. La casa dei Magrini non era una villa, ma una bellissima casa quattrocentesca nel centro della città. Bisogna notare che Magrini era Finzi-Magrini: il nonno del presidente della comunità era piuttosto piccolo e magro e di cognome faceva Finzi, ma per distinguerlo da tutti gli altri Finzi lo chiamavano «il Magrini».

Documentandomi sulla figura di Giorgio Bassani mi è rimasta impressa una lapide commemorativa degli alunni e del preside Teglio, espulsi dal liceo Ariosto di Ferrara nel 1938. Il contenuto della lapide esprime tutto il disprezzo e la vergogna per quanto successo durante quel periodo e vuole ricordare per difendere i diritti di ogni persona, affinché tutto ciò non accada più a nessuno. Lei, come uomo e come ebreo, è riuscito a perdonare?

«Il concetto del perdono ebraico è diverso da quello cristiano. Per noi ebrei si può perdonare solo ciò che è stato fatto a te personalmente, non quello che è stato fatto ad altri, in nome di qualcun altro. Ricordo che subito dopo l'entrata in vigore delle leggi razziali ci fu una mamma che impedì a suo figlio, con cui giocavo spesso ai giardini, di stare con me, portandolo via. E io sono rimasto solo. Come bambino non riuscivo a capire perché non potevo giocare con quello o con quell'altro. Dopo l'8 settembre sono stati presi i nostri parenti e quindi i nostri genitori decisero che dovevamo scappare. Il 14 novembre del 1943 i fascisti mi cercarono a casa, insieme a mio padre, ma non ci trovarono perché eravamo già fuggiti. A questo punto diventa difficile parlare di perdono. Se ci fosse stata una persona che mi avesse denunciato e quindi mi avessero preso, non ti saprei dire come mi sarei comportato al ritorno. Non perdono il fascismo in generale e tutto ciò che ha fatto».

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