IL CASTORO | Indagine sul futuro del dialetto romagnolo
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Francesca Conti
Di fronte alle nuove tecnologie e alla frenesia del presente, alcuni in Romagna tentano di ripiegarsi nel mondo, apparentemente passato, della propria cultura di origine. Una presenza caratterizzante di questa è il suo dialetto. La contemporaneità sembra averlo messo da parte, invece ne è profondamente intrisa.
Tipico della civiltà romagnola era l’uso dei proverbi, come quello del mese di dicembre e gennaio che recita: Sânta Bibiâna, quarânta dé e ‘na smâna (Santa Bibbiana, quaranta giorni e una settimana), perché se pioveva il giorno di Santa Bibbiana, il 2 dicembre, allora sarebbe piovuto per i quarantasette giorni successivi e viceversa se c’era il sole.
IL DIALETTO ROMAGNOLO: QUALE DOMANI?
Per alcuni studiosi e scrittori romagnoli, fra qualche decennio chi sarà in grado di capire questo dialetto vi si approccerà come si fa con le lingue morte. «Il dialetto romagnolo è destinato a morire - afferma Mario Gurioli, ex insegnante e scrittore -, perché una lingua vive finché è parlata». Anche il vicepresidente dell’associazione Friedrich Schürr Gilberto Casadio riferisce che «sta morendo, perché non è più usato nelle conversazioni interpersonali».
Dagli anni Settanta la trasmissione del dialetto tra genitori e figli si è perlopiù interrotta e accade che coloro che hanno meno di sessant’anni non parlino il dialetto ma tuttalpiù lo capiscano, cosa sempre più rara nei giovani. Persino Giuseppe Bellosi, glottologo, etnologo e poeta, afferma che «quando si interrompe la trasmissione familiare di una lingua, il suo destino è segnato».
LA FASE DELLA VERGOGNA
Negli anni del Fascismo, il regime tentò di eliminare quanto più possibile i riferimenti al dialetto, mentre dal secondo Dopoguerra, a seguito del miglioramento delle condizioni economiche in Romagna, esso fu visto come la lengua di’ purét (la lingua dei poveretti). Se ci si voleva modernizzare, si doveva parlare in italiano. Capitava allora che i genitori insegnassero un italiano dialettale e proprio sull’uso inconsapevole di espressioni di origine dialettale Valeria Miniati ha scritto un libro, L’italiano di Romagna (2010), in cui spiega alcune scorrettezze come l’espressione tipica romagnola ho rimasto, o la parola cespo, che, dicendosi càsp, è italianizzata caspo. Il timore di sembrare dei contadini indusse molti ad abbandonare il dialetto, nonostante fosse essenziale per raccontare la vita della campagna. Perciò Mario Gurioli crede che non sia possibile insegnare nelle scuole solo la lingua, perché parlarla significa anche parlare di un passato di tradizioni.
TENTATIVI DI PRESERVARLO
La legge regionale del 7 novembre del ‘94 tutela e valorizza i dialetti e il patrimonio letterario dialettale dell’Emilia Romagna. In questa direzione è impegnata la Ludla (la favilla), il periodico dell’Istituto Schürr, che fornisce spunti sul cultura linguistica e materiale romagnola. Inoltre lo Schurr ha ideato nel 2017 Romagna Slang, In Rumagnôl u s dis... (in romagnolo si dice), un canale Youtube in cui sono approfondite parole proprie della vita quotidiana. Casadio sottolinea che nell’ultimo periodo alcuni ventenni, incuriositi dal dialetto, si presentano ai corsi che lo Schurr promuove: sono interessati, fra i vari progetti, all’Aperi-Trebb. Una volta treb era la veglia di fine giornata in casa o nella stalla per giocare a carte, raccontarsi favole e talvolta ballare, fino a quando, racconta Gurioli, qualche ospitante non diceva Andê a let, che lô i s’vô andê a ca, cioè andiamo a letto perché loro vogliono andare a casa. La versione di oggi del trebbo è incontrarsi in bar di Faenza, di Villanova (Forlì) e di altre località, per parlare del e in dialetto.
Vi è poi il museo della vita contadina di San Pancrazio, che conserva oggetti artigianali e agricoli tipici della vita di una volta, come lo sciadùr (mattarello), che serviva per tirare la sfoja (sfoglia), o il pnêd (pennato o roncola) per falciare, o al tusùr (le forbici) per potare.
Da annoverare anche il Lunêri di Smémbar, un lunario-calendario, pubblicato a Faenza, contenente una zirudèla, cioè un testo dedicato all’anno passato, vignette satiriche, il calendario, gli orari del sorgere e tramontare del sole con meteo e consigli per la semina.
PERCHÉ SCRIVERE IN DIALETTO
«Per me il dialetto romagnolo è una lingua innata, con cui riesco a esprimere meglio quello che ho dentro» dice Gurioli, che, in Usanze di Romagna, aggiunge la traduzione a ogni locuzione dialettale per farsi comprendere, perché intende lasciare un’eredità anche ai più giovani. Per Bellosi, d’accordo con il poeta contemporaneo Franco Loi, la poesia porta le emozioni alla coscienza dell’autore e dei lettori; così egli adotta una lingua connotativa «che sento veramente mia – dice -, ovvero il dialetto, che ho parlato come prima lingua e che ho sempre usato in famiglia e nel mio paese».