Faenza, la presidente Ruenza Santandrea traccia un bilancio e le prospettive future del Consorzio vini
Riccardo Isola - In questo periodo il Consorzio vini di Romagna, già Ente Tutela vini, ha compiuto sessanta anni di vita e di storia. Un’invenzione voluta da Alteo Dolcini, assieme a Lino Celotti e Pasquale Baccherini, al fine di vincere la guerra alla sofisticazione dei vini di Romagna risollevandone l’immagine e la qualità in tutto il mondo. Lotta che lo ha portato fino al conseguimento del riconoscimento della Doc a cinque vini romagnoli Sangiovese, Albana (poi diventata Docg dal 1987), Trebbiano, Cagnina e Pagadebit. Oggi il testimone di questo sforzo è in mano a Ruenza Santandrea, donna del vino che con caparbietà abbraccia le sfide che la contemporaneità porta di fronte alla Romagna in vigna.
Santandrea che sfida è questa del XXI secolo per lei e per il Consorzio?
«Possiamo definirla storica a suo modo. Come Consorzio stiamo puntando a una promozione del vino romagnolo che torni alle origini, ma con una approccio qualitativo assolutamente nuovo. Sia sui bianchi che sui rossi. La purezza, la chiara interpretazione di uno dei simboli della Romagna da bere, lo stile inconfondibile del Sangiovese devono essere, pr esempio, i binari su cui viaggia la promozione e l’identità in calice di questa terra. Lo abbiamo fatto puntando molto sulle sottozone, non a caso ne sono nate quattro nuove, una a Imola e tre a Rimini, arrivando così a 16 terroir ben contraddistinti».
Un vertice della piramide qualitativa, sui Rossi, che sta ripagando?
«Il viaggio è appena iniziato ma iniziamo già a vedere una spinta aggregativa attorno a questa impostazione. Ad esempio con rocche di Romagna, progetto che promuove proprio questa tipologia di vino, in cui già una quarantina di cantine da Imola a Rimini hanno deciso di aderire. Ma non ci fermiamo qui».
Come sta cambiando il vino in Romagna rispetto al passato?
«Tanto. Oltre a un ricambio generazionale nelle cantine, e questo non può che essere una cosa molto positiva, cambiano stili e contenuti in calice. I vini di oggi stanno abbandonando le forzature del legno per abbracciare stili più freschi, immediati, puliti e capaci di essere gastronomici ma al contempo emozionali. Il tutto con un necessario quanto importante innalzamento del prezzo finale del vino che non può che far bene ai produttori, soprattutto in chiave di export».
Ma non c’è solo il vino come veicolo promozionale?
«Assolutamente no. Deve essere il territorio, i sui interpreti in vigna, attraverso una capacità narrativa e d’accoglienza che sposti l’interesse dei flussi turistici verso l’entroterra, in quella parte della Romagna antica ma affascinante a sud della Via Emilia, a fare da traino. Ci deve essere un progetto lungimirante nella proposizione di idee e progetti ma poi concreto nella sua applicabilità. I benefici saranno per tutti».
Adesso cosa ci si aspetta?
«Che cresca la voglia di fare sistema. Una sfida non facile ma sicuramente percorrribe e necessaria per il nuovo Rinascimento del vino e dei vignaioli di questa splendida Romagna».