Cavina commenta i compiti 'a tema libero', e spiega l'importanza delle parole

Romagna | 25 Febbraio 2022 Dumas
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I punti di vista: in generale tutti i racconti si sono sviluppati gestendo benissimo i punti di vista: ne hanno tenuto sempre uno solo, sul protagonista, lasciando a lui il compito di illuminare le ‘intenzioni’ o le ‘emozioni’ degli altri personaggi. Anche chi ha tenuto un punto di vista onnisciente (so tutto, vedo tutto) è riuscito a farlo senza combinare danni, senza intaccare il piacere della lettura. 
È stato un bel giro di racconti, devo dire. Mi sa che lascerò più spesso il tema libero - ecco, magari non sempre libero libero, ma qualcosa del genere.

Un aspetto laterale del punto di vista è la gestione dei nomi dei personaggi.
In linea di massima, i nomi non vengono percepiti come ripetizioni; certo, il più delle volte ci si può risparmiare di ripeterli, quando sono impliciti. Per esempio in un dialogo stretto: se prima parla Tizia e poi risponde Caio, sappiamo che la terza battuta, se non viene altrimenti segnalato, sarà Tizia (per via dell’alternanza); e quindi non serve nominarla. Useremo di nuovo il nome quando è un po’ che non lo scriviamo, e serve al lettore a rimettere un po’ in ordine la scena, a farglielo rivedere. Mariantonietta nel suo racconto lo fa perfettamente (due figli adulti e vaccinati alle prese con una mamma che inizia a fare tardi e a tingersi i capelli di viola, lanciata in un nuovo amore).

Quando invece battezziamo con un nome proprio il nostro protagonista, se stiamo raccontando in terza persona, sarà nominato o dal suo nome o dal pronome (Lei/Lui); in nessun caso lo chiameremo genericamente (il vecchio, la bionda, la signora, perché il lettore potrebbe pensare che ci stiamo riferendo a qualche altro personaggio. Succede questo nel racconto di Fabio, per esempio, che dopo una battuta di dialogo di Julia, ci fa vedere le sue lacrime dal punto di vista di un ‘ragazzo’: ma nella scena ce ne sono due, il protagonista Lukas e l’amico che cerca di fare da paciere, Mark. In quel punto il lettore si trova nella scomodissima situazione di dover andare a ricostruire la scena per capire a chi ci si riferisce; dovremmo essere nel punto di vista del protagonista, e invece sembra siamo saltati dentro a un altro, perché Lukas non percepirebbe se stesso come ‘un ragazzo’, ma come ‘lui’ (è in terza persona).

Le parole. Ogni parola conta, in una storia raccontata per iscritto; molto più di una storia raccontata oralmente, che lascia impressioni più generali: nelle pagine restano stampate, ce le abbiamo sempre lì a disposizioni, a un giro d’occhi.
Ho notato in diversi racconti - e mi capita di notare anche in manoscritti che per un motivo o per l’altro leggo - che a volte si tende a prendere i termini quasi a caso, come se tutti potessero andare bene. Certo, quando scriviamo abbiamo a disposizione lo sterminato vocabolario della nostra lingua, e magari anche quelli di altre lingue, se è il caso - ma questo non vuole dire che tutte le parole vadano bene. Quello che decidiamo di raccontare, come decidiamo di raccontarlo, i periodi storici o le età della vita che scegliamo di raccontare, devono operare per forza di cose una scrematura. Luciana ha scritto un bellissimo racconto, sul maschiaccio della compagnia, Marilù - si fa chiamare Mar, perché meno femminile - che ha deciso, sorprendendo tutti gli amici più intimi, di sposarsi. A un certo punto, ci viene raccontato che gli amici la redarguiscono. In italiano, è corretto. Ma se ci pensiamo bene, gli amici non redarguiscono. L’autorità redarguisce, gli sconosciuti redarguiscono; gli amici ti cazziano, si incazzano, te la menano: la parola redarguire è grammaticalmente corretta, ma non lo è ‘emotivamente’.
Nel bellissimo racconto di Anna Maria - una pensionata, Bianca, da una mano in una associazione che aiuta i richiedenti asilo ad imparare la lingua italiana, stringendo con loro un bellissimo rapporto, reso malinconico e straziante dal fatto che molte di queste persone poi la protagonista non le vedrà più da un giorno all’altro. Parlando di Loweth, una diciannovenne nigeriana, descritta benissimo, dopo averci calato in questa situazione molto dolce, calda, e quasi straziante, ci viene detto che lavora come donna delle pulizie ‘senza percepire una paga’. È corretto, capiamo benissimo cosa significa, dice quello che deve dire; ma scritto così è distaccato, freddo; abbassa la temperatura dell’ambiente che stavamo vivendo.
Lo stesso vale per le parole che facciamo dire ai nostri personaggi. Tiziano ci mostra il nostro Stefano alle prese con uno strano problema neurologico: ogni volta che vede un autovelox, uno strano crampo gli fa spingere l’acceleratore. Il racconto è molto divertente, soprattutto quando scopriamo che lo stesso problema lo ha anche la moglie, ma fa guidare lui, così non le tolgono a lei i punti della patente; ci sono però piccole imperfezioni nei termini usati dentro i dialoghi, quando personaggi che sono amici parlano tra di loro. Nessuno parlando con un amico direbbe mai ‘hanno installato un autovelox’ oppure ‘ci sono i limiti dei cinquanta’; non parliamo così nella quotidianità. “Hanno messo un autovelox” e “Ci sono i cinquanta”; non è che dobbiamo ricalcare esattamente il parlato, quando scriviamo, ma starci vicino il più possibile, soprattutto in situazioni così comuni come guidare la macchina.
Dobbiamo anche evitare di esagerare, entrando troppo dentro al nostro stile: Lauretana - che ha scritto un gran racconto, una dottoressa che parla con una ragazza con disturbi alimentari - con un incipit bellissimo - a un certo punto esagera un po’ con la scelta dei termini; a un certo punto la ragazza racconta la dottoressa con ‘pasturare’; è particolare, ma ci sta, lei ha questa cosa con il cibo, e il termine è perfetto, va in quella direzione. Poi però usa ‘stornò gli occhi’, per dire che distoglie lo sguardo, e smezzò un sorriso; così è troppo, si vede più la mano dell’autrice, che gli occhi dei suoi personaggi (La frase finale del racconto invece è magnifica: Amarsi (Amare se stessi) è una fatica suina. Lasciare andare una parte e vivere con quello che resta.

Frasi di uso comune. Dobbiamo stare lontani da quelle frasi trite e ritrite, che vanno benissimo per tutti contesti, sociali e lavorativi, ma non per la narrativa. 
Raffaele ci racconta di una tresca tra un uomo sposato e la giovane barista; hanno una notte di sesso sui tavolini, lui non si accorge di aver perso l’orologio: la moglie passa la mattina al bar, lo vede, e capisce tutto. Racconto molto divertente, con un paio di descrizioni e similitudine molto ben riuscite: ma ha momenti deboli quando l’autore usa frasi come: nutrita schiera o a più miti consigli. Lo stesso vale per Massimo, che nel racconto davvero notevole sull’ultima partita di campionato tra Atletico Etico e Dinamo Zagor - molto alla Osvaldo Soriano, davvero perfetto - cade un po’ quando ci parla del portiere Ciani, protagonista, che esce a vuoto su un calcio d’angolo e l’autore usa andare a farfalle, o sull’arbitro che fischia un rigore con decretò la massima punizione. Dobbiamo usare farina del nostro sacco, per raccontare questo, è proprio in situazioni del genere che il nostro stile, la nostra voce, lo sguardo dei nostri protagonisti, deve trovare il modo originale, unico, di far vedere ai lettori una cosa comune come se non l’avesse vista mai.
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