Case popolari, nel Ravennate il 21,8% alle famiglie straniere
Silvia Manzani
«Equità per noi significa tenere conto di vari criteri, non certo solo del tempo di permanenza sul territorio e quindi della residenza. Equità vuol dire che nella fotografia dei bisogni reali bisogna considerare anche la condizione sociale, quella economica e lavorativa, così come la fragilità familiare e la solitudine. Parlo da amministratore, non da politico. Ma le parole di Cristina Coletti, assessore del Comune di Ferrara, che ha dichiarato come anche a Ravenna si applichi il principio della residenzialità storica nel stilare le graduatorie per le case popolari, non dicono il vero». Emanuela Giangrandi, presidente di Acer Ravenna, fuori da ogni polemica spiega come l’Azienda casa applichi, secondo il regolamento del 2014, un principio diverso: «Il requisito minimo per presentare la domanda è tre anni di residenza ma in generale, il radicamento sul territorio può valere al massimo 30 punti su un totale di 150. Molto diverso il caso di Ferrara, dove a ogni anno di residenza viene assegnato un punteggio di 0,5, che ovviamente lievita in caso di persone residenti da molto tempo. Ma questa non è equità, perché così si creano disparità anche tra italiani e italiani». Guardando al bilancio preventivo 2021, le famiglie italiane assegnatarie di alloggi di edilizia residenziale pubblica sono, in provincia, 3.411, ovvero il 78,2% del totale. Le famiglie straniere assegnatarie sono, invece, 952, pari al 21,8%: «Ovviamente non bisogna fermarsi al cognome riportato sui campanelli, ci sono stranieri che hanno ottenuto la cittadinanza e che quindi ricadono nella percentuale degli italiani». Dal 2011, quando è diventata presidente, in avanti, Giangrandi ha visto la quota degli stranieri, sulla somma delle assegnazioni, aumentare ogni anno di una percentuale che oscilla tra l’1 e l’1,5%: «Nelle graduatorie, invece, la presenza degli italiani e degli stranieri è paritaria, anche perché per fare domanda non bisogna avere proprietà sul territorio nazionale e questo chiaramente ha un peso. Se guardiamo, invece, alle nuove assegnazioni, che ogni anno sono circa 250, i cittadini italiani sono il 60% e le famiglie straniere il 40%, con una tendenza a crescere e quindi a fare aumentare, poco a poco, anche il dato totale delle assegnazioni». E c’è anche il tema delle tipologie di appartamenti: «Se si libera un appartamento piccolo e la prima famiglia in lista ha tre figli, chiaramente non possiamo procedere a darglielo. Notoriamente, le famiglie straniere sono più numerose e quindi per loro l’attesa è più lunga anche perché i nostri sono appartamenti non grandi. Se guardiamo alla composizione dei nuclei familiari nell’edilizia residenziale pubblica, vediamo come il 65,4% del totale sia rappresentato da famiglie con una o due persone». Al contempo, nel 22,8% si tratta di nuclei di tre o quattro persone e nell’11,8% di cinque o più persone. Le differenze vengono meno quando si tratta, invece, di vita quotidiana: «Abbiamo un servizio di mediazione sociale che interviene nella conflittualità tra vicini di casa, un tema che con il Covid è diventato sempre più attuale e frequente, senz’altro per la maggior stanzialità delle persone nelle abitazioni e le difficoltà legate al lavoro, ma che non ha certo a che vedere con la provenienza geografica e culturale. In fondo è la varietà che noi vediamo più spesso. Nei nostri uffici, per fare un esempio, capita lo straniero che davanti alla proposta di un piano di rientro ci dice che siamo razzisti e l’italiano che ci accusa di dare la casa agli stranieri ma poi non paga la sua».