A Ceparano Domenico Ghetti è il «custode della biodiversità» ritrovata

Romagna | 12 Ottobre 2019 Le vie del gusto
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Riccardo Isola - «Non lo facevo cinquant’anni fa e non lo faccio di certo ora, il mio scopo non è quello della ricerca del profitto o dell’interesse economico ma mantenere, tutelare e promuovere una diversità botanica agroalimentare messa ai margini del mercato». Ha le idee chiare Domenico Ghetti «che da tempo ha passato i 70 anni» nel definire il perché e le motivazioni della sua passione verso i frutti e le coltivazioni di alberi da frutto della tradizione agroalimentare contadina e rurale. Sul cucuzzolo delle dolci colline di Ceparano, a poca distanza dal cuore urbano di Faenza, ma già nel comune di Brisighella, all’interno dell’azienda agricola che conduce assieme al figlio Stefano, Domenico coltiva, da mezzo secolo, un’ampia rappresentanza di alberi da frutti cosiddetti dimenticati, che oggi potremmo definire, per loro e nostra fortuna, ritrovati.
«Tutto è iniziato diversi anni fa - ricorda - quando assieme ai miei figli piccoli e alla moglie giravo la domenica pomeriggio, soprattutto in primavera, nelle nostre colline alla ricerca di fioriture di alberi a noi sconosciuti. Da lì è iniziata una passione che ancora oggi coltivo, nel vero senso della parola, e porto avanti. Ci tornavo in estate per cercare di riconoscere i frutti e se vedevo che potevano essere di una varietà poco conosciuta o addirittura lasciata a se stessa tornavo in autunno per tagliare una marza per l’innesto in azienda».
Una passione personale che oggi riesce a contare numerose e variegate specie di frutti ritrovati?
«Nei due ettari di campo dedicati a questa passione abbiamo messo a dimora circa trecento varietà di frutti. Questa è una passione e non una necessità imprenditoriale e per questo la mia ricerca in questo mezzo secolo è stata continua. Dall’area di Ridracoli fino alle colline imoelsi ho girato in lungo e in largo, in aziende, nei boschi, nelle aree più impervie per trovare alberi da poter poi innestare in azienda. Una fatica e uno sforzo non da poco ma che oggi, come all’inizio, mi regala ogni volta soddisfazione e gratificazione».
Quali sono le tipologie che coltiva e produce in azienda?
«Delle trecento specie abbiamo in azienda una settantina di vitigni ritrovati, tra cui un esempio di uva fragola bianca, che sono riuscito a recuperare all’interno del convento di Camaldoli o l’uva morta proveniente dalla vicina San Biagio. A queste si aggiugono un paio di centinai di esemplari di meli e peri a cui vanno sommati melograni, azzeruoli, sorbi, giuggioli e molte altre specie ormai rimaste solo nella memoria degli agricoltori più anziani e facenti parte di una civiltà contadina ormai dispersa».
Può farci qualche esempio di piante da frutto che possiede e coltiva in azienda?
«Avverto che potrei non finire più. A parte gli scherzi, tra le mele potrei ricordare l’Abbondanza a polpa rossa, la Durella, la Limonella, quella della Rosa, la Fogliona, la Renella rugginosa, quella Gecata o candita e quella Valden. Per le pere posso citare l’Angelica, la Mora di Faenza, la Scipiona oltre che la mitica Volpina o la Cocomerina d’inverno. Poi abbiamo alcune varietà di ciliegio come la Mora di Vignola e la Corniola, per le albicocche la Reale di Imola più altri 5 biotipi non iscritti, le giuggiole sono quelle tonde, molto rare, e le tradizionali, per le azzeruole abbiamo sia quelle gialle che quelle rosse (le più buone). Nel susino oltre alla Zucchella ne contiamo altre 5 tipologie e poi ancora il birincoccolo, il kaki e altre ancora. Riesco a portare avanti anche una tipologia di ortaggio, il fagiolo verdolino, ma non ne ho altre in questa categoria». 
Perché la scelta di convertire parte della superficie dell’azienda in questa sfida della promozione della memoria e della cultura contadina tradizionale? 
«Perchè è una passione in primis e poi perché mi è sempre piaciuto permettere alle persone di avvicinarsi a gusti e consistenze di frutti che è difficile o addirittura impossibile trovare sui banchi del mercato e dei supermercati. Per me la frutta non deve essere bella ma buona. I miei prodotti, oltre che naturali, presentano e portano i difetti naturali di una crescita in linea con l’andamento stagionale, con fierezza. Non usiamo e non vogliamo usare calibri per queste nostre coltivazioni ma l’amore e un rispetto per la biodiversità totale».
Come tratta nel campo le sue piante?
«In modo assolutamente rispettoso della biodinamica naturale. Solo trattamenti, comunque rarissimi, di rame e polisolfuro di calcio, e basta. Nessun diserbo, nessun anticrittogamico e nessun altro intervento fitosanitario. Se queste piante resistono in natura, a volte selvatiche, anche un centinaio di anni vuol dire che non hanno bisogno di essere poi tanto curate. E’ vero che la produzione non è ampia. La stragrande maggioranza dei frutti, infatti, cade a terra, ma la raccolta stagionale mi permette comunque, a un prezzo assolutamento simbolico, di poter vendere e quindi fare apprezzare alle persone queste inedite e uniche gemme della terra. Infine vorrei sottolineare che nessuna pianta, di quelle finora piantate, si è ancora e mai ammalata, non credo sia solo questione di fortuna. La più antica ha 47 anni ed è ancora lì che produce pere, tra l’altro buonissime, ovviamente».

Nei week-end del 12-13 e 19-20 ottobre la festa a Casola
L’autunno a Casola Valsenio è sinonimo di Festa dei Frutti dimenticati. Tutto è pronto nell’alta valle del Senio per la 29ma edizione della manifestazione che riscopre e valorizza una grande varietà di frutti un tempo comuni sulle tavole e oggi poco noti. Due i fine settimana di festa: quello del 12 e 13 ottobre e il successivo, il 19 e 20 ottobre. Due weekend per declinare il tema della rassegna in eventi di ogni genere e per tutti i gusti: degustazioni, mostre, concorsi, convegni, laboratori. Tutto per esaltare i prodotti dai nomi in gran parte sconosciuti ai più come avellane, azzeruole, biricoccolo, castagne, mele e pere cotogne, corbezzoli, corniole, giuggiole, mandorle, mele della rosa,  melegrane, mirabolanti, more, nespole, nespole giapponesi, noci, pere volpine, prugnoli, ribes, rose canine, sambuco, sorbo, uva spina, pera mora di Faenza e pera Scipiona. Dietro alla Festa c’è il lavoro di accurata riscoperta e tutela da parte dell’associazione per la Valorizzazione delle erbe e dei frutti dimenticati di Casola Valsenio, alla quale aderiscono le aziende agricole produttrici e che, insieme alla Pro Loco e al comune di Casola Valsenio, ha il compito di promuovere e valorizzare, con le erbe e i frutti dimenticati, l’identità storica, culturale, ambientale e turistica del territorio casolano.
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