25 aprile, il ricordo della Liberazione di Giuseppina e Adelina, due staffette ravennati

Romagna | 25 Aprile 2018 Cronaca
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Silvia Manzani - «Avevo 18 anni, ero un po’ fifona». Giuseppina Trombini oggi ne ha quasi 93. Suo marito Otello Mazzoni è morto nel novembre scorso a 100 anni: «Ne abbiamo passati insieme 74». Dalla sua casa di Ravenna la mente va al 10 settembre del 1943, quando dopo quattro giorni dal suo matrimonio, iniziò la Resistenza: «Ricordo ancora le serate passate a fare volantinaggio per le strade di Porto Corsini, dove vivevamo. Otello era una guardia forestale, indossava la camicia scura che gli consentiva di non dare nell’occhio. Ricordo i miei fratelli e i miei cugini, tutti anti-fascisti, che la notte si buttavano nel Candiano come delfini, a recuperare le armi che erano state gettate».
Quelle armi vennero portate all’Isola degli Spinaroni, che divenne una base partigiana clandestina del distaccamento Terzo Lori, in mezzo all’acqua: «Noi, per paura che Porto Corsini fosse bombardata, ci spostammo in venti in un casone poco distante da lì. Il cibo non mancava: mio padre era pescatore e aveva galline e conigli, ci preparavamo il pane – ricorda Giuseppina -. Io ero più defilata, ma mia sorella era una vera staffetta, andava a esplorare con la bici le postazioni dei tedeschi. Intanto mio marito e i miei fratelli, di cui uno morto sull’isola di Cefalonia, erano parte attiva della Resistenza».
E la paura, certe volte, era tanta: «Ho ancora in mente il bombardamento di Ravenna. La valle era illuminata a giorno, si sentivano i partigiani attraversare le acque a nuoto. Ricordo anche quando i tedeschi vennero a cercarci e picchiarono mia zia. Ma nonostante i sospetti, non fummo mai scoperti. E ci salvammo tutti».
Un altro ricordo indelebile, per Giuseppina, è la mancanza di acqua dolce per lavarsi: «Stetti sei mesi senza farlo, una vita. Ma l’orgoglio per quello che stavamo facendo è tanto ancora oggi. Mia nipote Francesca ha scritto pure un racconto su Armando Montanari, un partigiano che venne ucciso e al quale lavai il giubbotto affinché sua madre non vedesse tutto quel sangue». Il 25 aprile del ’45, invece, fu un giorno bellissimo: «La festa, le bandiere, i cortei. I fascisti si vendicarono e minarono la nostra casa di Porto Corsini, cosa che ci costrinse a spostarci a Marina di Ravenna. Ma la memoria di tanta felicità e liberazione continua. Quando oggi sento parlare di fascismo mi arrabbio, divento cattiva. La storia dovrebbe essere insegnata meglio. E invece i giovani non sanno nemmeno cosa sia stata, la Resistenza».

Barbara Gnisci - «Ho provato talmente tanto entusiasmo il giorno della Liberazione che è impossibile descriverlo: eravamo finalmente liberi, dopo aver vissuto sottoterra in un periodo in cui la vita umana valeva poco più di niente. Ancora adesso, ripensandoci, mi vengono i brividi». A ricordare è Adelina Grossi, 90 anni, di Massa Lombarda, che vive a Ravenna da quando ne ha 27, e che è stata una staffetta durante il periodo della Resistenza. «Quando i carri armati ci vennero incontro, ci sembrò un sogno.  Il 25 aprile la gente scese in strada per abbracciarsi e gioire insieme».
Adelina era diventata staffetta a 16 anni: «Era quello per me il periodo dei sogni e della speranza, ma anche quello in cui partecipavo alle riunioni clandestine del Gruppo di difesa della donna, che si tenevano nella stanza da letto di mia madre». Ed è proprio in una di quelle riunioni che Adelina conosce Osvalda Baffè, sua vicina di casa, che la introduce all’attività di staffetta: «Osvalda, detta ‘Lalla’, aveva un ruolo di responsabilità nel movimento clandestino. Lei aveva 24 anni e io cominciai ad andare in giro con lei: portarsi dietro una ragazzina era un modo per non dare nell’occhio».
Ma Lalla, che ben presto entrò nel mirino dei fascisti, morì nell’eccidio delle famiglie Baffè e Foletti, mentre Adelina si salvò. Era il 17 ottobre 1944: «La notte prima Lalla aveva dormito dal fidanzato, perché si sentiva in pericolo. Al mattino, tornando a casa, incontrò un signore che le disse di aver notato del movimento intorno a casa sua. Passò da me per farsi accompagnare, ma siccome piovigginava, non potendo andare a vendemmiare, mio padre mi aveva lasciato dormire. Così Lalla rientrò a casa da sola. Quando arrivò, uno dei tre fascisti le disse ‘ah, finalmente sei arrivata! Eccola qua la staffetta che dà da mangiare ai partigiani!’. Quel giorno morirono tutti anche coloro che si erano trovati lì per caso».
Dopo la morte di Lalla, Adelina continua la sua attività antifascista: «Noi staffette eravamo organizzate in gruppi da cinque. Ci si muoveva in bicicletta e ognuna aveva una mansione diversa: chi consegnava le armi, chi la stampa, chi gli ordini. Io ero più una gregaria: facevo i calzini di lana per i partigiani e portavo da mangiare. La morte di Lalla mi stimolò ancora di più a proseguire.  All’epoca non c’era possibilità di stare al di sopra delle parti: o eri da una parte o dall’altra e io ero antifascista già prima di nascere: figlia di un uomo che, preso in una retata, si trovava a Regina Coeli, quando nacqui». Con il passare degli anni è stata la sua inesauribile curiosità di conoscere e di conoscersi a farla andare avanti: «Ho avuto il destino di nascere in un momento difficile che mi ha tolto la giovinezza, ma che mi ha dato la possibilità di sviluppare un’enorme consapevolezza. Nei gruppi delle donne si parlava di diritti che poi sono stati ottenuti 30 anni dopo, come il divorzio e il voto. Oh, che emozione la prima volta che sono andata a votare!». Ancora adesso Adelina ha sul comodino tanti libri: di cultura francese, mitteleuropea, indiana. «Per molto tempo sono stata perseguitata da un complesso di inferiorità per il fatto di non aver studiato, ma adesso credo di averlo superato. Ci è voluta una vita intera. Quando mi chiamano nelle scuole a portare la mia testimonianza, sento di vivere bene la mia vecchiaia, perché ho la possibilità di raccontare quegli anni, in cui sono successi fatti di una portata storica eccezionale».

 
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