IL TESSITORE DEL VENTO di Guido Tampieri - La camera della morte
Guido Tampieri - Sui muri della Rai meloniana hanno appeso il cartello «qui non si fa politica». Come nei reparti ghetto della Fiat nel dopoguerra. Ogni appello alla pace in Palestina viene inteso come un grido di guerra, un oltraggio a Israele, una manifestazione di antisemitismo. Un’accusa urticante, che brucia sulla pelle di ogni persona per bene che voglia anche solo esternare uno stato d’animo , un disagio per quella pila di morti che diventa ogni giorno più alta. Senza che se ne veda la fine, come se fosse ineluttabile il peggio, e sconveniente ogni tentativo di scongiurarlo.
«Non tacciateci di antisemitismo - hanno detto medici e infermieri dell’ospedale Meyer di Firenze in risposta alle critiche per aver chiesto la fine delle ostilità- si sta zitti quando i bambini dormono non quando muoiono». E a Gaza ne muoiono tanti, vittime della belva umana, co cantavano i Nomadi, esattamente come i bambini israeliani trucidati da Hamas. Con una sola differenza: che i bambini israeliani sono morti ieri, a seguito di un pogrom proditorio , quando noi non potevamo far niente per impedirlo, mentre i bambini palestinesi muoiono adesso, domani, e per essi, come per gli ostaggi usati come scudo da Hamas, forse qualcosa si potrebbe fare. Di qui la frustrazione, lo sgomento, l’impossibilità per le persone decenti di tacersi. Indecente sarebbe solo se, a parti invertite, non chiedessimo la stessa cosa: fermatevi. Ma questo non lo saprete mai, dovete fidarvi sulla parola. Partendo dal presupposto che il fine non giustifica i mezzi, che se sei vittima di un’azione ripugnante la tua reazione non lo deve essere necessariamente a sua volta, che il diritto di difendersi finisce dove comincia il rispetto dei diritti umani, che anche un popolo in credito con la storia può sbagliare e che la dismisura di quel che sta accadendo a Gaza é sbagliata. Tanto più se produce molti morti, molte sofferenze e non altrettanti risultati. Se quello dichiarato di distruggere Hamas è il solo perseguito. Di fronte a quell’eccidio parlare di effetti collaterali proprio non si può e devi lottare con la coscienza per scacciare dalla testa l’idea che si voglia punire una colpa collettiva.
Scrive Vittorio Foa ne La mossa del cavallo che la cosa più difficile nella lotta contro il nazifascismo fu attraversare quell’inferno senza diventare come il nemico. Israele sembra non comprendere che questa sarebbe la sua sconfitta più grande. Il rischio non è, come si paventa, che tanti giovani stiano con Hamas ma che considerino uno Stato democratico alla stregua di un terrorista. Quei cecchini che colpiscono all’entrata delle chiese fanno venire a mente la metafora di don Milani a proposito della selezione indiscriminata dei bambini nella scuola dell’obbligo, in tutto simile a un cacciatore che spara alla cieca su una siepe, «forse è una lepre forse un bambino». Fra le macerie di Gaza non ci sono lepri. Israele si trincera dietro l’orrore dell’ antisemitismo. Che c’è ma non, certo non prevalentemente, dove i suoi rappresentanti e le comunità ebraiche sembrano pensare che sia. Quegli artisti che prendono posizione sul conflitto non diffondono odio, invocano pace. L’odio è già fra noi, a suscitarlo è questa guerra sporca, non c’è bisogno di coltivarlo, cresce rigoglioso da sé, vittima dopo vittima. L’ambasciatore israeliano presso la Santa Sede considera deplorevoli le parole con cui il Vaticano ha espresso il suo sdegno per la «carneficina».
Come se ciò che accade fosse una questione semantica. Trentamila morti come li vogliamo chiamare? Genocidio, che è l imputazione con cui la Corte di Giustizia dell’Aia chiama Israele a rispondere dei suoi atti, no e va bene, anche se in occasione del conflitto in Jugoslavia siamo stati tutti, anche Giuliano Ferrara, meno generosi. Ma in qualche modo, visto che nel libro della Genesi Dio ha concesso agli uomini il potere di dare un nome a tutte le cose, bisognerà pur trovare le parole per descrivere la tragedia che si sta consumando. Con milioni di esseri umani spogliati di tutto, privati della dignità, ingannati con quei volantini che promettevano la salvezza a sud e via via sospinti nella camera della morte di Rafah come tonni nella tonnara. La follia consiste nel far sembrare razionale l irrazionale. Fino a dove è lecito che si spinga Israele per difendere la propria esistenza? Fino allo sterminio dell’ultimo palestinese, come sembra adombrare Giuliano Ferrara? Facendo ricorso alle armi nucleari? Sfidando il mondo, alleati compresi? Includendo tutti nella lista degli antisemiti? Che fine ha fatto la politica se ha ragione di esistere solo la sua prosecuzione con altri mezzi? Se ad abbaiare rabbiosi sono solo i cani da guardia della morte. È evidente che c’è un rapporto causale fra la mattanza del 7 ottobre e quel che accade a Gaza. Ma come si fa a negare che ci sia un rapporto anche fra ciò che è accaduto prima e l’ascesa di Hamas? E che ci sarà fra la condotta del conflitto e le relazioni future fra i popoli. Quanti di quei ragazzi che protestano contro Israele lo farebbero se il mondo girasse per il verso giusto, se i palestinesi avessero quella patria che ancora in questi giorni gli viene negata, se non ci fossero tutti quei cadaveri? Davvero si può credere, dopo che li abbiamo educati ai valori della pace, che non manifesterebbero il loro disagio se al posto di Israele ci fosse la cattolicissima Spagna?
Dice Edith Bruck: «Netanyahu ha scatenato uno tsunami di antisemitismo. Noi ebrei non esistiamo per lui». Due Stati per due popoli, questa è l’impresa impossibile che può cambiare il paradigma di odio degli ultimi cinquant’anni. Altrimenti sarà ancora e sempre morte.